“Giornate di preghiera e di raccoglimento queste. Ore di devota mestizia! L’anima è tutta rivolta al più grande avvenimento della Cristianità. Lo spirito è proteso dinnanzi al giganteggiare di tanta luce divina. La scena folgora di squisita umanità. Morte e Resurrezione: il dolore e la gioia; lo strazio e la glorificazione. La settimana di passione in Calabria si presenta, adunque, ricca di fascinoso misticismo. La preghiera divota fluisce spontanea in ogni labbro e le laudi a Gesù nel sepolcro si innalzano da ogni petto, nel silenzio tombale dei santuari. Coperte le croci degli altari. Tacciono i bronzi di tutte le chiese. Il sentimento religioso – che è rimasto intemerato nell’animo dei calabresi – viene ancora più attratto in questi giorni dell’amore in Dio crocefisso prima; in Gesù risorto poi. I sepolcri attorno ai quali ardono i ceri dell’amore e della perenne ricordanza; le lampade della fede e dei nostri voti, sono la mèta di un infinito pellegrinaggio in gramaglie. È giovedì santo: tutte le chiese hanno il loro volto di profonda tristezza. Il più grave silenzio regna nella casa di Dio. Gli altari sono spogli del consueto abbigliamento. La luce del giorno viene celata dalle grandi tende che calano dinnanzi ai finestroni. Tutto buio e silenzio: il lutto di Gesù morto fa dolorare l’animo di ogni calabrese. Nel pomeriggio la folla dei visitatori ai sepolcri è ancor più solenne; verso sera diventa addirittura strabocchevole. Il rito fissato per questa sera richiama i fedeli numerosissimi nel maggior tempio.
Le funzioni liturgiche sono particolarmente commoventi. Sullo sfondo dell’altare maggiore va costruito il Calvario e, se questo manca, una grande e rude croce di legno annerito viene issata all’adorazione dei fedeli. L’oratore sacro, dal suo pergamo, illustra a grandi colori l’avvincente scena della passione di Cristo, la quale viene suddivisa in tre mirabili quadri: l’orazione di Gesù nell’Orto di Getsemani e il bacio di Giuda; Gesù alla mercè dei vari tribunali che lo condannano alla pena capitale ed infine l’epilogo atroce della sua morte. È in questa straziante ed ultima scena che l’emozione invade l’animo del buon calabrese. È qui che il quadro si colora a forti tinte: l’oratore sacro, nella sua perorazione, tiene fra le mani il Cristo morto, e si chiede a chi deve consegnare il corpo di Gesù. Quando ecco si apre il gran portale del tempio: Maria Addolorata – la Madre Sua amorosa – avanza portata a braccia dai giovani del contado. Squilla la tromba che rievoca il Centurione romano che precedeva le turbe, le quali accompagnavano Gesù al Calvario. Una forte emozione stringe il cuore dei fedeli. Tutti s’inginocchiano benedicendo. La Madre di Gesù avanza nella folla. Gli squilli del centurione si ripetono insistenti. Maria Santissima si ferma dinnanzi al pergamo. L’oratore intanto riprende con più calore la parola: “ Ecco o Maria il tuo Figliolo, l’adorato Gesù”. E così dicendo depone il corpo Divino nelle braccia protese della Madonna. Oh, com’è sì dolce al cuore generoso dei calabresi questa scena che è fra le pagine più belle del Vangelo! Oh! Com’essa ci ricorda la nostra fanciullezza, che non è più, quando in questa sera e in questo stesso tempio, le nostre adorate mamme ci issavano sulle loro braccia per farci veder meglio e ci sussurravano piacevolmente all’orecchio: “Prega anche tu – tesoro mio – il buon Gesù, per il tuo babbo, e per la tua mamma, pregalo!”.
Ora il canto dei fedeli si eleva soavissimo:
Oh dolce Madre, e pura
fonte di santo amore,
parte del suo dolore
fa che mi scenda al cor!
Fa che ogni ardor profano
Sdegnosamente io sprezzi,
che a sospirar m’avvezzi
sol di celeste amor…
Quale infinita e superba processione sfila, per le nostre vie, il venerdì santo! Ma perché è senza sole e sì grigia questa ultima giornata di passione? È la natura forse che prende parte al lutto di Gesù morto? E quanto dolore traspare sul viso dei fedeli, che seguono Maria Addolorata col suo Figliolo. Lieve, nell’aria, va il canto delle pie donne:
Gesù mio con dure funi
come reo, chi ti legò
Sono stato io l’ingrato,
Gesù mio, perdon , pietà…
Ma guardiamo un po’ alla messa in scena di questa nostra processione, che tanto amore ed interesse suscita nell’animo del nostro buon popolo. Un contadino quello che viene ritenuto di buoni costumi, dopo aver ottenuto il SS. Sacramento, viene vestito di un sajo purpureo, a somiglianza di Gesù. L’uomo transustanziato in divino, riceve sulle spalle una grande e nuda croce di legno, mentre gli viene posta sulla testa una corona di spine. Il peso della croce gli imprime quell’andatura caratteristica che ci fa ravvisare l’immagine di Gesù sotto la croce. Lo seguono i giudei (altri contadini) dalle lunghe lance affilate: indossano una veste grigio – ferro e celano il volto in un cappuccio, su cui sono praticate due piccole aperture in corrispondenza degli occhi. Gesù, lungo il tragitto, cade tre volte secondo quanto è consacrato sul Vangelo. Viene poi portata a braccia da validi contadini, la grandiosa culla: “la naca” – come la chiama il volgo – tutta merletti e veli candidissimi, sul cui letto giace Gesù morto. Quattro putti alati sorridono, posti agli angoli della “naca”. Ed infine segue la statua di Maria SS. Addolorata, portata da un gruppo di sante donne. Ella tiene fra le mani il corpo esanime di Gesù. Dal suo viso esangue, dagli occhi stanchi per il lungo piangere, traluce tutto il suo amore, tutto il suo dolore. Una folla immensa, vestita a nero, segue triste e desolata le sacre effigi.
Ora il canto si ripete ancor più armonioso:
Oh Maria, quel tuo bel figlio,
chi l’uccise e tel rubò?
Sono stato io l’ingrato,
o Maria perdon , pietà… (Alfonso Galasso)