Mi piace riproporre integralmente una denuncia apparsa sul n° 20 del 31 ottobre 1976 di Calabria Kroton dell’Editore Rodolfo Bava a firma dell’allora Direttore editoriale Nicola Vaccaro.
“Abbiamo voluto un po’ approfondire le nostre cognizioni sulle possibilità valorizzative della zona del crotonese estendendo le nostre modeste ricerche anche fuori delle mura provinciali. Vogliamo riferirci alle possibilità che il sottosuolo calabrese offre allo sfruttamento industriale. La risposta immediata, meditata e documentata che si può subito dare alla domanda se la Calabria possiede o meno delle ricchezze non sfruttate e, quindi, delle industrie potenziali distrutte, non può che essere positiva. A sentire l’ormai radicata ed inveterata opinione di non pochi disfattisti, questa nostra regione non sarebbe che una “terra bruciata”, rappresentante , nel computo dell’economia nazionale, la povertà personificata. Da tanto la convinzione più grave – è bene dirle certe verità – che a spendere somme per un’eventuale industrializzazione della Calabria sarebbe come il peggiore degli affari. Non poteva affermarsi cosa più inesatta. Probabilmente la convinzione trovava la sua ragione d’essere nell’interesse e nella paura che una nostra industria sviluppata potesse costituire una pericolosa concorrenza ai prosperi affari di chi aveva ben altre prospettive. A rendere accreditata una tale opinione, hanno concorso – è vero – molti fattori e, primo fra tutti, il generalizzato concetto di qualche economista ed agrario di una certa zona argillosa – calcarea che trasse il convincimento che tutta la nostra terra dovesse ritenersi improduttiva e inadatta a qualsiasi trasformazione. L’autorità dell’uomo che per primo queste cose disse, creò, conseguentemente una “verità provata”, poco curanti di controllarne la vera verità, anzi più propensi a travisarla nel suo preciso aspetto. Per nostra sventura e disdoro, non vi fu chi, su dati inconfutabili, offerti dalla realtà stessa delle cose, avesse potuto e voluto dimostrare il contrario. È vero che agronomicamente esiste una plaga argillosa inadatta a trasformazione arborea, ma è ancor più vero che il resto della nostra terra /ed è tanto) offra, come e più delle altre regioni, possibilità impensate di coltura varia e redditizia.
Le possibilità di vaste zone irrigue ed il più fortunato fattore ‘luce’ e ‘calore’, costituiscono da soli fonti inesauribili di meravigliosa prosperità. Ma c’è ben altro che possa smentire la storica panzana della nostra povertà geologica ed è la certezza di possedere un sottosuolo che, oltre a quanto si sa, serba le più grandi incognite per i tentativi di esplorazione e di approdo del domani. Vero è che il problema esige investimenti notevoli di capitali; ma la certezza della riuscita non avrebbe dovuto (né dovrebbe) fare tentennare nella necessaria ripresa di valorizzazione. Questa nostra terra è e resta un vasto campo sperimentale, avido di capitali, ricco di forze umane cui avrebbero dovuto confluire, naturalmente, e le attività dello Stato ed i tentativi di esplorazione delle varie imprese industriali. E sì che di ricchezze naturali è ben florida questa terra dimenticata. Carlo D’Angiò vedeva nel suo sottosuolo la migliore prospettiva di una sicura prosperità economica e il governo dei vicerè spagnoli ravvisava addirittura le ‘Indie del Regno’. Dalla grafite dei territori di Olivadi, Centriche, San Vito, Squillace, Sant’Elia, Filadelfia, Polia, all’antracite di cui è ricco il territorio di Nicastro e Catanzaro; dalla torba al quarzo di Parghelia, di Tropea, Chiaravalle, che un tempo si smerciava su Napoli per le fabbriche delle stoviglie; al rame carbonato di Martirano, Cortale e Gimigliano; dal galeno di Belvedere Spinello, Caccuri, Castelsilano, Mesoraca, allo zolfo ed idrosolfati di Tiriolo e Nicastro; dal solfuro di ferro di Monterosso, Miglierina, Cerenzia, al ferro ossidato di Palermiti e Sambiase; dal manganese ossidato di Briatico al salgemma di Cerenzia, Zinga di Casabona, Caccuri, Policastro [Petilia] e Cropani; dall’alluminio di Zagarise (monte Tiriolo) e di Gimigliano, alle diverse specie di graniti e di acque termali e medicamentose fino alle vecchie miniere di argento di Verzino, è tutto un complesso di materie prime la cui presenza è accertata indiscutibilmente, ma la cui consistenza non è stata mai potuta calcolare.
Del resto, sin dai tempi antichi si parlava di queste ricchezze non sfruttate: Ovidio, Stradone, Cicerone ed altri, a proposito delle miniere ferrifere del circondario di Gerace e precisamente quelle dei territori di Stilo, Bivongi, Placanica, ne hanno fatto esplicite menzioni e richiami. E chi non ricorda il messaggio di Alarico che dava preciso incarico di sfruttare ‘le molte miniere delle Calabrie’? Chi non ricorda il primato di sfruttamento delle ferriere della Mongiana e della Ferdinandea, dalle quali si traeva quasi tutto il materiale per l’artiglieria e la fanteria del regno? Ma uomini e tempi hanno voluto distruggere quel che si era fatto: dov’è più l’avanzata coltura del gelso, le fabbriche di cuoiami di Tropea, quelle dei tessuti in lino di Catanzaro, Taverna e Borgia? Sparite sono anche le industrie manifatturiere cotoniere di Montauro, Motta Santa Lucia e Crucoli; le concerie di pelli che davano sino a 187 mila chilogrammi di cuoio, le manifatture di sapone di Sambiase, Soriano Calabro, Gerocarne o quelle della cera di Gasperina e Confluenti e così via. Ma occorre guardare al presente. Ebbene alcuni tentativi di sondaggio sono stati fatti: la Montedison ha operato delle perforazioni nella zona del crotonese: non pochi sono i pozzi chiusi ermeticamente. Non si sa cosa si sia trovato nel sottosuolo. L’Agip Mineraria ha operato delle perforazioni terrestri e marine e continua in questa opera. Si vuole che il metano rinvenuto sia di quantitativo incalcolabile. Per il momento il metano ritrovato a Crotone viene immesso nella condotta cosiddetta ‘nazionale’ che porta a Lamezia Terme. Ma su questo argomento occorre che si torni. È troppo importante ed occorre che se ne discuta con cifre sicure alla mano. Quel che disse Gino Arias, indiscusso competente nel campo economico e sociale, risponde a verità lampante: ‘…Il difetto dell’industria italiana in genere sta proprio nell’inveterata caparbietà a dover far vivere una certa industria dove non trova condizioni favorevoli alla sua vitalità e sviluppo, dimenticando per altro che ogni attività del genere ha bisogno di trovare, innanzitutto, i fattori favorevoli alla sua prospera vita’” (Nicola Vaccaro)