- Documentarsi sul dialetto cirotano, parte prima
- Documentarsi sul dialetto cirotano, parte seconda
- Documentarsi sul dialetto cirotano, parte terza
- Documentarsi sul dialetto cirotano, parte quarta
Nella quarta parte di queste riflessioni sul dialetto cirotano mi sono soffermato su una serie di termini usati da G. F. Pugliese nella sua ‘Descrizione…’ e che riguardavano taluni aspetti della vita quotidiana, quali i lavori o gli attrezzi agricoli, che dovevano occupare gran parte dei pensieri dei nostri ‘antenati’. Per spiegare tanta attenzione al mondo agricolo basti pensare che l’altra attività preminente era la pastorizia, diffusa in misura minore rispetto alla coltivazione delle terre, mentre la pesca era poca cosa, essendo l’attività marinara rappresentata, in quella prima metà dell’ottocento in cui GFP scrive, prevalentemente dal cabotaggio, attività che dipendeva comunque dalla necessità di esportare i prodotti del territorio, soprattutto olio e grano, e dal bisogno di avere un punto di approdo per le importazioni via mare, essendo i trasporti via terra ancora più rischiosi, vuoi per le condizioni infrastrutturali delle strade, vuoi per quelle ‘congiunturali’, legate al brigantaggio preunitario e al banditismo in genere. Questo ‘punto’ di approdo si chiamava, nell’attuale ‘Marina’, ‘Baracca del Caricatojo’, per il quale GFP auspicava l’istituzione di una dogana, oltre che la costruzione di un porto, o meglio di un porto-canale, mentre altri ‘punti’ di semplice attracco si trovavano nella attuale Marina di Strongoli (Torre Purgatorio), a Torretta di Crucoli e a Torre Melissa. Da questa premessa si capisce come mai nella DIN i termini agricoli siano preponderanti. Vediamone qualcuno, cominciando dalla coltivazione della vite.
‘Perloppiù (i vigneti) si coltivano da’ proprietarii; e pochi usano il contratto a miteda per lo quale il colono fa tutte le coltivazioni, e divide col proprietario. ‘Perloppiù i terreni impiantati a pastine, denominazione che si dà alle novelle viti, esclusivamente si addice ad orti di cocomeri e melloni, che rinfrancano spesso tutte le spese: dopo 11 mesi si tagliano i capi rasenti terra: si zappano e rincalzano bene, e si tornano a ripulire in maggio o principii di giugno, ciò che dicesi ammajare. Al 2° anno si fa la stessa coltivazione, e si mette il palo che perloppiù è di canna. Al terzo anno comincia il prodotto, talché al sesto anno si dice pastinona. Le viti si sostengono col palo fin che non hanno acquistato robustezza. Non si crescono di altezza maggiore di due palmi sul livello della terra, ed usciti di palo, vale a dire sostenendosi per una discreta grossezza da per loro si dicon vigne fatte.’ ‘A febbraro o marzo si puta, a giugno si stralcia, che dicesi svitignare. Questa puta e svitigna è sempre costante, e si usa la puta tagliando rasente tutti i salmenti senza lasciare affatto cannello con due e tre occhi come altrove, ma un solo occhio per posta, talché la testa della vite si forma come cranio, e la diciamo volgarmente crozza.’ ‘Pria della puta si spuntano i salmenti in gennaro ed anche prima, ciò che dicesi approcciare.’ Ovviamente non manca la spiegazione di fornelli (‘funnèddi’) e magliuoli (‘magghjula’). Cambiando genere, scopriamo che ‘piantonere’ è il nome comunemente usato per indicare i vivai (i ‘vurîvìn’). Passando alla coltura degli ulivi ci dice ‘…e non si rincalzano già come prima praticavasi da’ nostri maggiori, i quali si beavano dicendo di aver dato al tronco una buona zuppa, rialzandone all’intorno il terreno, ciò che dicevano incappucciare.’ E subito dopo aggiunge che ‘la puta da noi è detta rimonda’; che sugli alberi si sale con un bronco dentato volgarmente detto scalandrone; illustra poi la rimonda a spalla, consiglia di attenersi alla formula dei buoni agricoltori per la corretta operazione di ‘rimunna’: tagliare il secco, il diritto e lo stretto; ritorna sul significato di rampare (arrampàr): ‘vale a dire colla zappa si pulizzano bene tutte le aje che formano i limiti delle piante rialzandone gli orli’, quindi passa alle operazioni di frangitura delle olive: gli ‘olivari’ sono le celle dove si ammassano le olive, che saranno poi spremute a quattro ‘zerni’, cioè compiendosi per quattro volte il giro della pasta, senza lesinare termini e relativa spiegazione come ‘rifatto’, ‘nagliere’, ‘fiscoli’, ‘pànnula’, ‘santalucia’, ossia bombola di mezzo militro (misura di capacità per liquidi) che serve per i lumi e per mangiare e che rimane a carico di chiunque macini (mi ricorda quando si faceva ‘pisàr u pipu’ e si pagava il servizio lasciando una parte del macinato).
Tra i frutti troviamo grisomoli, persici, percochi, portogalli, pirette (‘limoncelle dolci’), tutti termini che, benché non esclusivamente cirotani, è importante che vengano registrati. Forse il termine più significativo è proprio ‘pirette’, anche se temo che non si coltivino più. Altri termini interessanti, per la storia e per il dialetto, sono la bonifica della sterzatura, l’abbatto, la jastima (ne parla a proposito di raccolti funestati o insoddisfacenti), le giungate (‘sciongàta’), e via dicendo. Una parolina che forse molti ricorderanno è il mezzetto (u menzèttu): GFP ci dice che ‘ Il tomolo degli aridi si compone di due mezzetti napolitani alla rasa.’ Questo della ‘rasa’ è un punto importante,considerando che all’epoca non esistevano le bilance odierne e che l’unità di misura era effettivamente ‘riprodotta’ grazie agli appositi contenitori destinati alle misurazioni, che pertanto erano diversi a seconda del prodotto da pesare (‘aridi’, vino, olio…) e della quantità da accertare (u mittu, u menzalùru…). Immagino operazioni laboriose e dispute a non finire, a vogghhj ‘e dir ‘posa a piscia ‘nta vilànza’, e ‘šcurma ccà’, e ‘minta ddà’… Secondo me, mi sbaglierò, ma quella ‘rasa’ è proprio parente prossima del nostro attuale ‘a rasa a rasa’… Almeno, così mi piace pensare. Aggiungo che le unità di misura ‘duosiciliane’ hanno avuto valore legale dal 1480 fino al 1840 (!), e non deve destare meraviglia il fatto che ancora oggi se ne abbia, per quanto spesso impreciso, qualche ‘ricordo’. Tanto per dimostrare il radicamento di alcuni termini, riporto che ‘la salma si compone di 16 lancelle, la lancella di 8 caraffe, la caraffa di 24 once: così ogni salma è di 3 barili ed 1 lancella. Ora la lancella si va disusando, ed il vino si contratta a barili e non a salma’… ricordando che anche il barile, come la botte, era una precisa unità di misura. Chiudo questa parte con un’ultima citazione: ‘aggiungi che appena si allontanano (parla degli asini), uno il più giovane fra’ travagliatori sospende (il lavoro), e li riduce prossimi (li riporta vicino) al luogo del travaglio che dicesi anta’, da cui, aggiungo, deriva la frase ‘jìr all’ant(a)’, ‘andare a lavorare in campagna’, ma anche ‘rapìr l’ant(a)’… Ora mi rimane da precisare che, come è evidente, GFP ‘italianizza’ molti termini locali, ma ciò che risulta secondo me importante ed interessante è la possibilità di rinvenire parole e frasi e registrarle, farle sedimentare e rivitalizzarle, per quanto a volte possano sembrare frutto di supposizioni fantasiose. Ritengo, invece, che non di frutti di fantasia si tratti, ma di ‘riscoperte’ alle quali ridare il giusto valore culturale.
Cataldo Antonio Amoruso
da Piacenza
Mi ero posto anch’io il tuo stesso problema, ma sembra quasi che non esista: nemmeno Rohlfs credo che ne parli, sicchè credo possa bastare il ricorso alla ‘j’ semivocale: scriverei semplicemente ‘gghjèsa’, ‘gghjàzza’. Del resto l’uso di digrammi o trigrammi per rappresentare dei suoni è un accorgimento storicamente affermato in molte lingue nazionali. Per quanto riguarda la frase che proponi, molto dipende dalla personale interpretazione del parlante. Scriverei comunque stracquatu, all’italiana, e ndrongulijànn, con una ‘i’ indistinta e al massimo con una ‘u’ finale, ma è solo un mio modo di vedere e nulla più. Grazie e ciao.
a leggerti mi sembrava di fare una passeggiata nelle vigna o in un orto mentre scanzavo i ” tifuni ” e zumpavo i “carroli” e coglievo la succulenta ” prucchiaca “. Che bello ! Probabilmente arriverai a spiegarci da dove può derivare ” naticchiula “. Ti leggo sempre con immenso piacere e sto raccogliendo i tuoi articoli, anche se i miei eredi sono tutti nordici.
Congratulazioni e sinceri apprezzamenti .
Caro Quintino, alla tua richiesta posso rispondere anche subito, poichè casualmente conosco la risposta. ‘Naticchjula’ deriva dal tardo latino ‘anaticula’, che significa ‘chiavistello’: cadendo la ‘a’ iniziale, tale parola è diventata prima ‘naticula’ e poi, nel dialetto meridionale, ‘naticchia’, da cui, secondo la parlata cirotana ‘natìcchjula’. Mo’ vallo a spiegare che un tempo le porte erano spesso divise a metà orizzontalmente, che erano quasi sempre aperte e che bastava allungare una mano anche dall’esterno, girare ‘a naticchjula’ ed entrare in casa… Altro che sistemi d’allarme! Tutto qui: un pezzetto di legno appena appena lavorato e un chiodo di fissaggio.
Ciao e grazie.
Ricordo quand’ero piccolo che la porta di casa di nonno, ma anche altri “portoni”, aveva un laccio all’esterno che tramite un buco arrivava fino all’interno, bastava tirarlo e l’anta si apriva 🙂 Probabilmente il laccio era legato alla “mascatura”, nuova generazione della vostra “naticchjula”. Ciao e grazie di questi meravigliosi ricordi che ci state regalando, mi viene la pelle d’oca
Proprio come dici tu, Marco, credo che i due ‘sistemi’ per un certo periodo siano anche convissuti (a naticchjula e a mascatura), nel senso che per la notte ‘si mintìva u mascu ara porta’, mentre durante il giorno bastava girare la ‘naticchjula’. Successivamente si è fatto ricorso al sistema del laccio, molto diffuso, e che funzionava come dici tu. Grazie.
come sempre un grande piacere leggerti! hai ricevuto la mia e mail? un cordiale saluto da Salta!
Grazie dell’attenzione; purtroppo non ho ricevuto nessuna mail. Ciao e… aspetto.
Ormai i tuoi articoli e i relativi commenti sono diventati punto di riferimento molto importanti.Grazie per questa bellissima iniziativa. I tuoi chiarimenti sono esaurienti e preziosi. Sto cercando di raffigurare graficamente la pronuncia nostra propria di gghiazza (?) gghiesa chinu. Per esempio :chiru straqquato va ‘ndronghilianni tuttu u jurnu ‘mmenza a jjazza
davanti a jjesa. Come lo scriveresti tu? Che musica ! Ciao e grazie ancora.