La libertà religiosa è indubbiamente un connotato significativo di una cultura, e, conseguentemente, i richiami in ordine all’identità culturale assumono spesso una tonalità religiosa: la preservazione di una minoranza o di una cultura spesso dipende dalla salvaguardia di usanze e riti religiosi.
In generale, la religione costituisce un forte elemento di appartenenza, ingenera legami significativi tra i suoi membri, e, per ciò stesso, anche chiare linee di demarcazione tra appartenenti e non appartenenti a un certo culto.
Sebbene la religione venga sempre più intesa come una scelta soggettiva e autonoma, rimane prevalente l’idea che l’appartenenza religiosa sia quasi un fatto “di nascita”, che si tramanda di generazione in generazione, e che, pertanto, crea un decisivo sentimento identitario tra quanti vi afferiscono.
Le religioni, inoltre, determinano visioni del mondo che pervadono tutta la vita del credente, attraverso regole di condotta, codici morali, cosmogonie, e quant’altro. Da questo punto di vista, esse sono spesso vissute come “esenti da critiche”: da un lato, perché si impongono come questioni di fede, cioè come qualcosa che non ha bisogno di essere spiegato o capito, ma semplicemente creduto (sicché rimangono permeabili a qualunque confutazione logica o scientifica);dall’altro, perché le tematiche religiose tendono ad occuparsi di ciò che vi è di più importante nella vita (dell’idea di “sacro”, di ciò che conferisce senso all’esistenza), e perciò possiedono una naturale inclinazione a superare ogni altro tipo di discorso potenzialmente contrastante, come ad esempio quello del rispetto delle regole giuridicamente intese.
Per tali motivi, il dato religioso dell’identità si manifesta come più pervicace e monolitico, e, per ciò stesso, meno negoziabile sul piano degli obblighi.
Attualmente l’ordinamento giuridico italiano è ispirato ad una forma di pluralismo in ambito religioso, tanto più che la nostra società si evolve maggiormente in termini multiculturali.
Il fattore primario della libertà religiosa, inteso come diritto culturale, risiede nella facoltà di scegliere liberamente un’appartenenza religiosa (ed, eventualmente, di mantenerla, o di smetterla, o anche, come abbiamo visto, di non sceglierne alcuna).
Sebbene una definizione della fattispecie dei cd. “reati culturalmente orientati” non sia ancora stata fornita in modo unanime, sembra utile, ad una preliminare focalizzazione sul tema, partire da un’affermazione di Van Broeck, secondo cui, per “reato culturalmente orientato” è da intendersi “un comportamento realizzato da un soggetto appartenente a un gruppo culturale di minoranza, che è considerato reato dall’ordinamento giuridico del gruppo culturale di maggioranza. Questo stesso comportamento, tuttavia, all’interno del gruppo culturale del soggetto agente è condonato, o accettato come comportamento normale, o approvato, o addirittura è incoraggiato e imposto”.
Si tratta, a ben vedere, di una spiegazione che valorizza la “radice psicologica” del reato compiuto per motivi culturali, giacché evidenzia la discrasia insita nel confliggere di due regole statuite in uno stesso individuo: da una parte la regola a carattere culturale, che sancisce, approva e, talvolta, impone un determinato comportamento; dall’altra quella strettamente giuridica, che lo stesso comportamento interdice, scoraggia e persegue.
Le fattispecie che più di frequente sono state qualificate come ‘reati’ sono: le violenze in famiglia, i reati di sangue per difendere l’onore, la riduzione di minori in schiavitù, i reati contro la libertà sessuale, le lesioni personali di origine culturale, i reati connessi a sostanze stupefacenti, l’inadempimento dell’obbligo scolastico, i reati inerenti all’abbigliamento rituale, i reati commessi per errore culturalmente condizionato sul fatto o sulla legge penale.
Vediamone una disamina più approfondita.
Le violenze in famiglia presentano la seguente casistica:
innanzitutto, i maltrattamenti (art. 52 c.p.): dalla lettura delle molte sentenze a riguardo, si evince che spesso l’autore del reato afferma di aver compiuto il fatto per ragioni culturali. Spesso le vittime sono soggetti ‘deboli’, come moglie e figli, facenti parte della famiglia dell’immigrato, mentre l’agente è un soggetto ‘forte’ del contesto familiare (mariti vs. mogli, genitori vs. figli) profondamente influenzato dall’impostazione familiare patriarcale del suo Paese d’origine. A titolo d’esempio si può considerare una sentenza del 2008 che condannava un immigrato marocchino per aver maltrattato i familiari (violenza sessuale nei confronti della moglie e latitanza dai doveri di assistenza familiare). La Cassazione respinse il ricorso dell’imputato, il quale si appellava alla mancanza della dimensione psicologica (relativamente ai rapporti inter-familiari) nella cultura marocchina e musulmana cui apparteneva .
Altro caso è quello dei matrimoni combinati/imposti: vi sono episodi in cui i familiari usano violenza alle giovani donne della famiglia per costringerle a sposarsi con uomini scelti da loro, che potranno garantire la continuità delle tradizioni e della condotta morale cui la donna deve sottostare.
Ricorrente, poi, è anche la punizione di individui che si ribellano alla tradizione: si tratta di una delle eventualità più cruente in seno a una famiglia. In genere accade che i padri puniscano con la morte le figlie che vogliono emanciparsi dalla cultura d’origine e non vogliono ‘ravvedersi’ dal loro comportamento. La presenza di un individuo ‘ribelle’ nell’ambito familiare, infatti, è spesso vissuto come un intollerabile punto di disonore rispetto alla comunità di appartenenza. Fu questo il caso di Hina Saleem, una giovane pakistana che venne uccisa e sepolta nell’orto di casa dal padre e da due cognati. Nella sentenza di primo grado (confermata in appello e in Cassazione) si legge che il comportamento “all’occidentale” di Hina era giudicato con grande preoccupazione dai suoi familari: ella costituiva “‘un serio problema’, non solo per i risvolti interni alla famiglia, dando un cattivo esempio anche alle sorelle; ma soprattutto perché rappresentava ‘un problema’ per la famiglia nei risvolti esterni verso la comunità pakistana”.
In Italia vi sono stati dei procedimenti penali a carico di nomadi extracomunitari di etnia slava, i quali, per difendersi dall’accusa in oggetto, hanno reclamato la validità di loro antiche tradizioni che regolano i rapporti tra adulti e minori.
I reati contro la libertà sessuale possono presentare le seguenti occorrenze: ai danni di fanciulle: le vittime sono spesso donne molto giovani o adolescenti: nella cultura di chi commette il reato esse non possono disporre liberamente della loro sessualità; ai danni delle mogli: i reati che riguardano la sfera coniugale sono sovente compiuti da uomini immigrati nei confronti delle loro mogli (il più delle volte loro connazionali): gli agenti adducono a motivo del loro comportamento il fatto di appartenere ad una cultura in cui le donne sono pianamente sottomesse agli uomini anche da un punto di vista sessuale. Nella casistica vi è la storia di due giovani marocchini che si sposano con un matrimonio combinato, e che, a causa della loro indigenza, solo due anni dopo vanno a convivere, quando il marito riesce a trovare una casa. Tra le mura domestiche, la donna viene costretta ripetutamente a rapporti sessuali controvoglia, in seguito ai quali abbandona il tetto coniugale. L’uomo, condannato per stupro dai giudici di merito, ricorre in Cassazione adducendo, a sua discolpa, i seguenti motivi:
• inconsapevolezza della legge penale violata e assenza di dolo generico (egli, infatti, non solo non era a conoscenza del fatto che in Italia la violenza tra coniugi è reato, ma non avrebbe neanche saputo che sua moglie lo aveva sposato perché costretta dalla di lei famiglia);
• mancato riconoscimento dell’attenuante della provocazione disciplinata dall’art. 62, n. 2, c.p., poiché, a detta dell’imputato, la violenza sarebbe stata scatenata dal comportamento ‘ingiusto’ della moglie che si rifiutava di ‘consumare’ il matrimonio.