Negli ultimi anni si è andata diffondendo anche in Calabria e continua con solerzia la ricerca archeologica e speleologica con attività esplorative di natura scientifica. Alla luce degli ultimi avvenimenti si può dire che le tecniche della speleologia siano giunte a livelli alti e ciò lo dimostra la recente esplorazione nel sottosuolo carsico delle “Grave” di Verzino con le sue tre grotte, scoperte non da molto tempo (1998 ad opera di speleologi di Trieste e Firenze) e che nella loro interezza e ben congiunte costituiscono la grotta più lunga della Calabria con i suoi 5 km, sorpassando, se così si può dire, le grotte di Sant’Angelo di Cassano allo Ionio, lunghe, “solo” 3.650 metri. Tale scoperta è merito del Gruppo Speleologico Le Grave di Verzino (KR), assieme al Gruppo Speleologico Sparviere di Alessandria del Carretto (CS), il Gruppo Cudinipuli di Cosenza, lo Speleo Club Ibleo di Ragusa, il Gruppo Speleologico ‘Ndronico di Lecce, il Centro Ricerche Carsiche di Altamura, il Centro Speleologico dell’Alto Salento di Martina Franca, il Centro Ricerche Carsiche di Putignano e il Club Alpino Italiano di Verbicaro di Cosenza. Di siti ipogei in Calabria di, più o meno, rilevanza scientifica già se ne parla nel ‘500. Gabriele Barrio in “De antiquitate et situ Calabriae” cita le grotte termali di Cassano e Cerchiara; P. Fiore in “Della Calabria illustrata” scopre la “grotta di Vulcano” detta anche di san Gregorio di Stalettì. Due secoli dopo Tommaso Aceti annota le cavità di Roggiano di Gravina. Nel sec. XIX Vincenzo Padula, il prete indagatore di Acri, parlando di leggende e fantasiosi tesori, cita la grotta di Tramontana e della Maga Sabina sempre a Roggiano; nello stesso secolo altri studi scoprono la grotta della Madonna di Praia a Mare, un gruppo di cavità in Aspromonte e gli ipogei dell’Istmo di Marcellinara sulle alture di Tiriolo. Nel ‘900 non sono pochi gli studi che anticipano la presenza di cavità naturali ancora non esplorate con obiettivi speleologici e del resto non se ne aveva la tecnica.
Tornando alle grotte di Verzino, bisogna ricordare che nell’area dell’Alto crotonese, in un raggio di un centinaio di chilometri, anche le vicine Pallagorio, Castelsilano, Cerenzia e Caccuri fino a Petilia Policastro sono ricche di grotte, dette anche “Grave” dai residenti del luogo; “grave” come le più possenti e molto estese presenti in Puglia quali quelle di Castellana, Laterza, Grottaglie, Palagianello e di Matera anche. Cavità di queste regioni da non confondere con le grotte, più in superficie, naturali o prodotte da uomo per via della friabilità dei materiali calcareo-tufacei; le grotte, insomma, utilizzate come dimora e chiese rupestri da monaci basiliani orientali rifugiatisi da noi in seguito alla lotta iconoclasta di Leone III l’Isaurico. Quelle del Marchesato sono vere e proprie cavità molto profonde prodotte anche dall’attività erosiva dei fiumi Neto, Vitravo e Lese; sono siti di notevole rilevanza scientifica e ricchi di bellezze naturali paesaggistiche anche per la presenza di torrenti sotterranei che con le loro acque danno particolari colorazioni alle pareti rocciose. Ricordiamo le grotte di località Trabbese a Cerenzia con scalanature aguzze sulle pareti gessose; a Pallagorio il sito in località Frantieri con fratture rocciose sulfuree; la grotta del Palummaro di Caccuri con stratificazioni gessose; le grotte di Cerratullo di Petilia con particolari formazioni globulari sul tetto. Le grotte di Verzino, conosciute come Grava di Grubbo, la Risorgenza di Vallone Cufalo e l’Antro del Torchia, per gli speleologi “si sviluppano interamente in rocce gesssose che rendono le cavità importanti anche a livello nazionale per la loro rarità e solitamente sono sempre connesse, come nel caso della recente scoperta, a torrenti sotterranei perenni o stagionali.”
Ed ancora. Come si è giunti alla congiunzione delle tre cavità? Scrivono, in sintesi, i protagonisti dell’operazione che “inizialmente, dopo aver forzato diversi e stretti sifoni (attivi e non) viene trovato il collegamento fra la Risorgenza di Vallone Cufalo e l’Antro del Torchia. Successivamente, dopo aver disostruito un sifone di sabbia presente ad un lato dell’Antro del Torchia e percorso quasi 300 metri di stretta e tortuosa galleria, viene trovato il collegamento con la Grava di Grubbo. Durante la prima parte del campo sono state anche effettuate delle ricerche bio-speleologiche”. Bene! Ormai si può affermare che il tutto costituisce, senza tema di smentita, risorse naturali, beni culturali che meritano maggiore attenzione, oltre che dagli speleologi, da chi è preposto alla programmazione dello sviluppo turistico. Meritano l’inserimento in un circuito che possa attirare i flussi turistici soprattutto d’estate dalle coste tanto frequentate. Però non si può raggiungere tale obiettivo se non prima si liberi, quest’area, dall’isolamento delle comunicazioni stradali. Solo così si può realizzare quel tanto ambito “Geoparco ipogeo dell’Alto Crotonese” del quale già si è sussurrato negli anni passati. Ma non solo. È necessario promuovere, costantemente, interventi di recupero e di riqualificazione degli ambienti degradati e attivare interventi di gestione, manutenzione e sensibilizzazione. Chi vivrà vedrà!