di Giulio Basile, 7 gennaio 2016
La piccola città della Magna Grecia, spesso ricordata in epoca romana da numerosi scrittori latini (tra cui: Tito Livio, Strabone, Virgilio, Valerio Massimo, Silio Italico, ecc.). Sita in forte posizione sul versante orientale della Sila; cinta da poderose mura, fornite di torri sporgenti, e di due porte di accesso. Il suo sito era presso l’odierna Strongoli, dove furono trovati e si trovano oggetti, statue e resti preziosi d’oro, d’argento, di rame, di marmo e di terra cotta; monete, iscrizioni, colonne, basi di statue, e vasellame dipinti con scene di caccia. Terme e resti di abitazioni con affreschi sovrapposti (Greci, Bruzi e Romani). Quattro basi marmoree con scritte in latino del 11° sec. a.C., si trovano nel Museo di Reggio Calabria e quattro sempre della stessa epoca che misurano hm. 1,20×90, con iscrizione latina si trovano nel Duomo di Strongoli. Inoltre vi fu trovata una rara laminetta orfica. Fondata, secondo una leggenda rodia da Filottete, fuggiasco dopo la guerra e la distruzione di Troia XII sec. a.C.. In seguito fu soggetta a Krotone. Le sue campagne, ricche, furono specialmente rinomate per la coltura delle viti “AMINEE” e gli Armeni. Occupata dai Bruzi nel 344 a.C. acquistò autonomia e comincio a battere monete di bronzo e di argento, con leggenda greca 300 a.C.. Dopo la battaglia di Canne (219 a.C.) contro i Cartaginesi, malgrado la generale defezione dei Bruzi e dei Lucani, PETELIA rimase fedele rigida, al patto di fedeltà stretto, con Roma, e si elevò a così gran fama per la stenua, quanta disperata resistenza all’assedio dei Cartaginesi, (che durò quasi un anno) avvenuta nell’anno 215 a.C.; da essere paragonata, nella letteratura latina, alla eroica SAGUNTO. Nel 205, Annibale che l’aveva perduta, la riprese, per poi abbandonarla, nuovamente ai Bruzi, nel 203 a.C. dopo aver asservito (ucciso) i primari cittadini, e armati gli schiavi (3.000). Riconquistata dai Romani e ricostruita a grande splendore con grandi templi marmorei, con colonne granitiche, ed innumerevoli statue, nel 202 a.C. divenne città federata e riprese la monetazione con la leggenda PETILINA e con il sistema divisionale romano. Conservò, tuttavia la lingua greca, con divinità Greche, finché non fu elevata a Municipio Romano, (anno 89 a.C.) e ascritto alla TRIBU’ CORNELIA. Durante le Guerre Servili, fu saccheggiata da Spartaco, che sulle sue alture riuscì a battere un luogotenente di Crasso (il Tribuno Marcello). Per quanto fiorente, sotto l’impero Romano, al tempo di Pausonia II® sec. d.C. non era che un nome.
PETELIA! Nome poco noto, ma ricco di fascino, perché sveglia ricordi che si perdono nella notte dei tempi; nome che ci trasporta con l’immaginazione al ritorno degli eroi greci in patria, dopo l’epica distruzione dillio; e ci fa vedere il Mar Jonio, dalle limpide acque di zaffiro solcato in lungo ed in largo da mille navi greche, con a bordo colonizzatori esperti, avidi di terre da conquistare. Il ricognitore vigile scruta l’orizzonte, ove mai la terra promessa dagli oracoli si profili in lontananza, mentre ai piedi dell’albero maestro, sul tripode di bronzo, arde il fuoco sacro, simbolo della patria, che accompagna e protegge gli ardimentosi. Questo nome evoca fragorio d’armi, calpestio di cavalli, urla terribili di guerra e gemiti disperati di moribondi con il petto squarciato da poderosa spada o da ben affilata lancia. Ed infine come in un terribile dramma antico, questo nome ottenebra la nostra fantasia, evocandoci quelle tristi circostanze di cui fu artefice Annibale quando, dopo la battaglia di Canne infurio su questo litorale jonico, ingemmato da borghi e città fiorenti, portando lo sterminio, il saccheggio e la morte, dove fioriva l’arte, il pensiero e l’opulenza. La fondazione di questa città viene attribuita a Filottete, leggendario eroe omerico, posto anche nel numero degli argonauti e di cui abbiamo anche notizie in Strabone. Aveva ricevuto in dono da Ercole morente le sue frecce avvelenate nel sangue dell’idra di Lerna; ma aveva dovuto promettere con solenne giuramento, che non avrebbe rivelato ad alcuno il luogo della tomba del più grande degli eroi. Essendo venuto meno al giuramento, sul piede con il quale aveva additato l’ubicazione della tomba, cadde una di quelle frecce avvelenate e gli cagionò una grave piaga che emanava fetore irresistibile. Guarito dal medico Macaone, intervenne all’assedio di Troia, seminando la morte, con quelle frecce straordinarie ed uccidendo in ultimo Paride. Al suo ritorno a Melibea gli abitanti si ribellarono contro di lui. A questo punto Strabone ci narra che l’eroe allora, preso da rimorsi per quel suo passato sanguinario, passò in Italia Meridionale per fondarvi una città, quasi ad espiazione di tanto sangue versato. E sulle coste calabre del Mar Jonio, dopo aver deposto nel tempio di Apollo Aleo, a Kremisa, le frecce ed il turcasso di Ercole e chiesto al nume perdono per le stragi compiute e protezione per la sua città costruenda, proseguì verso Sud; e trovato un luogo ameno, ricco di prati ubertosi, con alle spalle un susseguirsi di colline boscose ed a Est la vista di quel mare, lo Jonio, tanto caro a quei mitici eroi, fondò PETELIA, che ben presto doveva affermarsi per il suo miracoloso sviluppo edoveva poi eternarsi nella storia per la sua fedeltà a Roma: fedeltà però che le costò la distruzione, ma costruì la sua principale gloria. Molto probabilmente la sua prima ubicazione della città (e ne fanno fede molti ritrovamenti) è da stabilirsi nella pianura, località Gangemi, non lontano dal mare. In seguito, forse per ragioni climatiche e difensive, si trasferì più a monte, ove sorge l’attuale Strongoli. Indubbiamente la città attirò, ben presto, per la sua floridezza, la cupidigia della vicina e potente Krotone che a dovette sottomettere. Passò poi ai Bruzi che, fortificandola la trasformarono in una fortezza imponente, divenendo in seguito la Capitale. Quando in seguito alla vittoria di Canne, le città delle regioni si dichiararono per Annibale, credendo forse di evitare saccheggi e vessazioni, PETELIA, mostrando un ardimento senza precedenti e coprendosi di gloria imperitura, si mantenne fedele a Roma. Ma l’atto della fedelissima suscitò ira feroce in Annibale, che da Crotone, ove si era attendato, dopo la spoliazione della città ed il saccheggio del ricco e stupendo tempio di Hera Lacinia dalle tegole marmoree e dai tesori inestimabili, spedi ferocissime schiere al comando dei generali Imilcone ed Annone, per punire la ribelle città. L’assedio fu lungo e degno dell’epicità omerica. Dopo ben undici mesi di resistenza, la popolazione, superati sacrifici indescrivibili, come assicura lo storico Valerio Massimo, dovette arrendersi per la fare e le epidemie.
** e quando a fine d’anno /vinse la fame, non la forza, al grande / nemico, con disprezzo: Ecco dicesti, / non Petelia prendi … Petelia vinse! / prendi il sepolcro e questi pochi resti /ove la nike sta … Petelia vinse!
(da Giulio Basile; “L’ASSEDIO DI PETELIA” in “Radici”)
Di fronte ad una così singolare prova di fedeltà, Roma non poteva restare insensibile. Quando, infatti, la sua terribile rivale, Cartagine, fu avvolta dalle tenebre della decadenza, Roma ordinò il rientro in patria dei pochi cittadini superstiti e delle macerie fece risorgere a nuova vita la fedele PETELIA, concedendole il titolo di “Municipio”, il diritto di zecca (e meravigliose sono le monete Petiline) e ricompensandola con altri privilegi. I cittadini avevano nelle vene integro il sangue ellenico e mantennero fino al l° sec. a.C. la lingua e i costumi della madre patria. Quando tutta la regione cadde sotto l’egemonia di Roma, incominciò la decadenza della Magna Grecia. Roma, infatti, più che costruire, distrusse, o si preoccupava solamente di creare fortezze militari nei punti strategici. Si dimentico, ben presto anche della sua fedelissima e non essendo favorito ed incrementato più quello splendore economico artistico e culturale, Petelia, col passare dei lustri e dei decenni nell’arco di un secolo ando lentamente decadendo. Al tempo Giustiniano, pure il nome era stato cambiato ed intorno all’acropoli della gloriosa città, sorge Strongilos, il nuovo centro urbano, che venne così chiamato per la forma circolare della sua estensione. Oggi niente rimane dell’antica gloria, niente dei gloriosi avanzi che hanno sfidato la furia dei secoli e la ferocia di Annibale; quando dagli scavi per le nuove costruzioni, sia pubblici che privati, e dagli scavi per le condutture del gas o per altri scavi per opere stradali, appaiono alla luce terme, avanzi di vecchi edifici pubblici e privati con affreschi e mosaici del III° Sec. a.C. fino al II® Sec. d.C.; l’ignoranza, l’incuria, la cupidigia dei cittadini, ed il disinteresse delle autorità strongolesi, provinciali e regionali, hanno fatto sparire quelle orme grandiose che parlavano di storia, d’arte e di splendore. Anni addietro mentre spianavano alcuni lotti di terreno per la costruzione di case private in Via Portella (ex orto Capozza), proprio a ridosso della parte absidale della chiesa del Vescovado, tornarono alla luce dei pavimenti in marmo pregiato e pareti in stucco con affreschi ben conservati. Tanti splendidi ritrovamenti, che la terra gelosamente aveva saputo conservare per oltre due millenni, non esistono più: la mano sacrilega e la mente stolta dell’uomo moderno, ha distrutto in poche ore ciò che aveva sfidato la furia delle guerre e del tempo! Indubbiamente la Petelia, assalita e distrutta da Annibale doveva sorgere dove ora si estende l’attuale territorio abitato di Strongoli (compreso Pianette). Ne danno conferma gli avanzi di mura colossali, grandi pezzi di colonne granitiche disseminati un po’ per tutto il paese (una, quasi intera si trova in piazza d’uomo, come simbolo del monumento dei cittadini caduti nei conflitti della l° e Il° guerra mondiale). Grandi blocchi di marmo quadrati, avanzi di costruzioni imponenti, che si vedevano lungo la Via XXV Aprile, che nel 1956sono state distrutte per dar posto a costruzioni popolari di pessimo gusto. Avanzi che ancora affiorano in altri posti, come dietro l’edificio del nuovo Museo (tra Corso B. Miraglia e il Palazzo Comunale) e lungo la Via Provvidenza (tra la chiesetta di San Gaetano e l’attuale farmacia Arrighi e in tutto l’ex orto della Signoria). Mentre parte della Via XXV Aprile presentava la massicciata di una vecchia Strada Romana. Dovunque affiorano ossa, dovunque resti di oggetti fittili di squisitezza artistica e frammenti di statuette votive di grazia puramente ellenica e di raro realismo romano. A volte, nelle ore libero dagli impegni professionali, vado esaminando le zolle sconvolte dalle scavatrici per dar posto a nuove costruzioni; e quelle zolle sembrano protestare contro la mano sacrilega degli Strongolesi, che distruggono quanto la terra ha saputo custodire gelosamente per millenni nelle sue viscere. Esamino a volte strati di terreno ancora bruciacchiato e la mia mente allora costruisce la fatale tragedia di Petelia, costretta col ferro e col fuoco, a soccombere tanto drammaticamente. Ricordo, a malincuore, che nel periodo degli anni 50/60, mentre le scavatrici aprivano varchi e spiazzi e sconvolgevano reperti storici e zolle di terreno bruciato, flotte di ragazzi si avventavano come sciacalli ad afferrare un avanzo che veniva alla luce, da vendere, poi a qualche impiegato o a qualche insegnante o professionista: improvvisati amatori, che in effetti accaparrano non per amore verso l’antico e per riverenza verso quelle sacre reliquie, ma perché spinti dal miraggio di un probabile lucro. L’amore per l’antico è civiltà pura, è venerazione spassionata, è cultura sublime che considera una monetina rara o comune che sia a un qualsiasi altro oggetto (che viene alla luce dell’antica Petelia), come autentica e preziosissima reliquia. Da VOX POPULI, ancora oggi branchi di tombaroli, noti ed ignoti, di notte e di giorno sondano con strumenti sofisticati, trovando e facendo venire alla luce, centinaia e centinaia di monete d’argento e anche di oro, e decine di statuette dello stesso metallo, di marmo e di terra cotta e tesori seppelliti dell’epoca dell’antica Petelia ed ancora di epoca precedente, di inestimabile bellezza, per poi trafugati ed esportati all’estero, con il ricavato lucro illecito, si costruiscono lussuosi edifici e ville faraoniche o facendo sfoggio di macchine potenti e costose. Ancora oggi, a Strongoli, e in Calabria, tutto questo esiste. Il mecenatismo, il culto per il passato, il riverente amore per le cose antiche, anche se oggi tanto ricercato come per stupida civetteria, l’ossequio per ciò che parla delle trapassate generazioni, sono manie di altri tempi: manie sublimi che ci hanno portato alla luce città sepolte e civiltà di cui avevamo solo scarse
Ma anche questa epigrafe resta poco eloquente, perché ai nostri giorni, per il bando che si sta dando allo studio del latino, pur essendo lingua nostra e gloria nostra, pochi sono quelli che riescono a capire il significato di queste parole. Fortunatamente, qualche anno fa per opera della “Pro-Loco” è stata fatta una traduzione, anche se approssimativa, in italiano e in inglese.
Testimonianze scritte.
Oh se il generoso suolo di Calabria ci ridonasse altri Paolo Orsi! Oh se nel cuore dei cittadini si svegliasse l’amore per l’antico sapere e per le sacre reliquie del passato! Forse, anzi certamente, la civiltà della “Magna Gracia” verrebbe conosciuta più profondamente ed il nostro spirito tormentato da guadagni leciti ed illeciti, distratto da questa modernità, forse troppo scientifica, computerizzata e materialista, conoscerebbe tanta intima consolazione che tanto intimamente consolarono i nostri avi. Il raro viandante che coltiva ancora il culto del passato, attraversando queste contrade, rivive le favole belle e la storia di quei lontani tempi che resero la Calabria, nel periodo delle colonizzazioni elleniche, un giardino di borghi e di città ove l’arte, il pensiero e la storia trovarono una delle dimore più adatte per il loro sviluppo. Per la gente della strada, attaccata ad un muro dell’ex albergo “Romano”, resta una epigrafe in latino:
“Stronjilen accedens illam nunc esse memento olim quae nituit nomine Peteliae.
Condidit exiiguam muris Paeantius heros. Nunc cive atque solo, clarioripsa nicat.”