“ ‘A bifana a mmìa / on mbinn’ ‘e nenta / pot’èssara ca vecchja comu esta / on mbitt’ ‘u nùmaru d’ ‘a casa / o puramenta si chidìa / c’on era intra”. Con questi pochi, semplici e incisivi versi la poetessa Nicolina Carnuccio ha commentato una mia nota, apparsa su ilcirotano.it lo scorso 5 gennaio, titolata “La Befana, una bella e importante favola sempre viva”. L’amica Carnuccio, da Belvedere Spinello, nel 2003 per i tipi di Calabria Letteraria, ha pubblicato una raccolta di racconti e poesie col titolo semplicemente accattivante Quando eravamo bambini io e i miei fratelli. Rileggiamolo quest’itinerario affettivo, generazionale non solo della nostra scrittrice e poetessa quanto di tanta gente costretta alla diaspora che vuole raccontarsi, ripercorrere la pellicola della vita. Non si tratta di un tornare indietro, piuttosto voler capire, voler indagare sul come eravamo, sul chi eravamo, alla maniera neorealistica. Tutto ciò può avere un obiettivo didattico – educativo? Certo che sì. E se ci viene da un’educatrice se ne può star certi. Una serie di racconti, ma meglio un diario tutto valoriale che ripercorre la quotidianità di una, bisogna proprio dirlo, lontana fanciullezza degli anni ’50 di un piccolo borgo antico, il borgo delle tante chiese e conventi, dai pendii d’incanto da dove si ammirava il mare dei sogni come un infinito irraggiungibile, eppure lì sotto mano, ma pur sempre lontano e “nte nott’e luna/ vij’u mara luntanu/ e nni para/ ca sentu/ chjanu chjanu/ a guci sua/ comu nta stati/ prim’u nesci ‘u sula.”
Si è davanti ad una scrittrice e poetessa, davvero riservata e discreta ma pur smaniosa di raccontarsi, ora che vive lontana da quel borgo natio.
Il borgo natio della Carnuccio è Badolato, sì avete capito bene, il “paese in vendita” come fu proposto, alcuni anni orsono, provocatoriamente per stimolare le istituzioni ad accorgersi una volta per tutte dei centri collinari e montani, preziosi scrigni di antica umanità.
Sentite cosa scrive in versi proprio pensando e rivedendo la sua Badolato nella lirica Giugnettu 2000: “ Appojata ahru murehru/ da strata nova/ ‘e chista vanda/ da pett’e l’Angiali/ ti guardu:/ para ca comu quandu/ca ni scilij’u cora/ e nto silenziu/ sentu venira/ de vinehri/ guci e rumuri/ do passatu:/ è l’amuri pe ttia.”
E in un racconto ecco la Badolato di ieri, i paesaggi della Carnuccio: “I rioni del nostro paese hanno per lo più lo stesso nome della chiesa che sorge al centro di essi. Santa Barbara, San Nicola, Santa Maria…Il nome di alcuni si riferisce alla loro esposizione: un rione pieno di sole si chiama ‘Destru’, un altro che il sole lo vede pochissimo è detto ‘U Mancusu’. Con la nonna ( la presenza costante ed importante da sempre e non per niente in tante parti della Calabria è considerata la “mamma randi”, la grande madre), abitavano al Mancusu[…] La nostra casa era una stanza con una sola finestra e poche cose: un letto grande sostenuto da piedistalli di ferro, un tavolo, sedie, una ‘barileria’ di legno dipinta di nero per i barili d’acqua e un cassone in cui tenevamo il grano[…] Di fronte la casa il muro alto di una chiesa su cui cresceva la tenera parietaria. Le mie sorelle più grandi e altre bambine la raccoglievano per farne cestini…”
E come si viveva? Quale il rapporto coi genitori? Quali i giochi? Quale il percorso educativo? Diciamolo ai giovani di oggi, ai nostri figli.
Ecco cosa racconta la Carnuccio, cosa ci ricorda e a cosa stimola. Si giocava all’aperto, per la strada a “i petrurhi”, a “u lignerhu”, a “castaraci”.
“Di tanto in tanto veniva in paese ‘u capillaru’. Comprava capelli o li barattava con elastici, spilli, bottoni, automatici[…]Qualcuna [delle donne], per estremo bisogno, si tagliava i capelli per venderli. Mia madre racconta che sua nonna una volta si tagliò le trecce lunghissime e le vendette e col ricavato comprò dalla feluca un tomolo di grano per seminare.”
Ed in un altro racconto: “Mio padre era un uomo facile all’ira e al perdono[…]Mio padre ci ha amato quanto ci ha amato e ci ama mia madre, ma i loro silenzi dopo rimproveri o busse ci pesavano molto. Avremmo voluto pure parole pacate e carezze. Allora però si diceva che ‘ mazzi e panelli fannu i figghj belli’ e che ‘ i figghj bisogna baciarli nel sonno’.”
Ed ancora, leggiamo insieme Mama ( Mia madre), una lirica che con estrema delicatezza e con elevate dosi di sensibilità eleva un canto alla sua mamma e alla sua terra, un po’ la somma di tutto il viaggio della Carnuccio.
“Mia madre/ d’estate/ a piedi scalzi/ torna dall’orto./ Coltiva le piante,/ lei lava/ lei cucina/ lei impasta la farina/ per il pane/ taglia e cuce/ cammisi bracassini/ e jjuppunehri/ assammara i panni/ pe’ a vucata/ annaca i zitehri/ macandija a jjornata/ macandija e canta/ Il Piave mormorava…/ Quel mazzolin di fiori…/Oh campagnola…/ E poi/ mburnata l’ura/assettata ahra loggia/ ni cunta cunticehri/ e sparroga a nna guci/ a cuccuvehra.”
E sempre alla mamma, in altri versi: “ Ni vinna ahri mani/ na cuvertehra/ chi nni detti tuna/ e cchi ttessisti/ tant’ann’arredi/ cu stornatini ‘e lana, i gruppi su’ tanti/ c’on si potarìanu cuntara…”
Ed in un’altra lirica “i ditterii” le metafora della madre che ritornano utili ancora oggi: “Parravi pe dditteri/ e cchihri ditteri mona/ senza c’u vogghju/ venanu nsuma/ e all’occasioni/ eu i ripetu/ comu facivi tuna…”
Tra i versi e i racconti ancora altro seme di saggezza antica da spargere non per tornare indietro ma per vivere meglio.
Insomma, si può ben dire di avere letto e ponderato in Nicolina Carnuccio, una poetessa – scrittrice che, nel suo percorso memoriale intriso di sottile e triste romanticismo, ha compiuto un viaggio ricordando e rivivendo momenti della sua e nostra vita; ci ha consegnato una testimonianza d’amore attraverso una scrittura densa e luminosa, chiara nelle metafore e nel registro simbolico.
grazie,Professore,sei troppo buono con me.affettuosi saluti.nicolina