Nell’affrontare la traduzione dal castigliano all’italiano e quindi al cirotano di questo che è l’inizio del ‘Poema del mio Cid’, poema epico anonimo risalente al 1140 circa che racconta le gesta del condottiero Rodrigo Díaz de Vivar, meglio conosciuto come El Cid. Una delle pietre miliari della letteratura ‘mediterranea’ non mi sono nascosto un problema per così dire ‘di lesa maestà’ (confesso di aver tradotto anche il canto di Paolo e Francesca… mammaredda meja!!!): l’ho superato, questo scoglio, pensando che il frutto letterario è destinato soprattutto alla fruizione del lettore, e come lettore ho beneficiato dell’insegnamento contenuto in questo brano che mi ha sempre preso emotivamente. C’è qualcosa di universale nelle parole che descrivono l’immagine della partenza del Cid verso l’esilio, qualcosa che come nativi di ‘terre del sud’ in tanti abbiamo, pur in diversa misura, vissuto… Sono, le storie del Cid Campeador, altamente paradigmatiche, che si offrono a differenti livelli di lettura, dalla fruizione filmica, ‘leggera’, fino al doloroso ripiegarsi dei pensieri all’interno dell’anima pensante del lettore. E allora mi sono concesso questa rivisitazione molto personale del ‘pezzo’, volgendola nel mio dialetto, poiché sento, in qualche modo, la presenza di quell’eroe, o almeno le tracce del suo destino, anche nella mia terra di sempre.
Trovo, quello che ne rimane dell’esordio del ‘Poema de mio Cid’, di una vastità illimitata, un compendio di storia – e anche di storie personali – mirabilmente condensato in poche righe, righe che vanno lette, sentite, intese, interpretate… o, diversamente, accolte anche per semplice diletto, per l’immagine – ma anche il ricordo – di certi suoni e consonanze. E’ qui che l’uomo si stacca icasticamente sul deserto che gli è stato fatto intorno… l’esilio e l’isolamento contro i quali dovrà essere più forte. Molta storia d’Europa passa per questo incipit. Molta storia di parte dell’Italia è qui significata: è l’anima mediterranea, federiciana, quella che risale dalle sabbie di Akragas, sguscia alla presa di Scilla e Cariddi e avvolge tutto il sud dello Stivale, e ovunque riappare, come riappaiono voci e inflessioni che un orecchio attento non fatica ad associare tra di loro, come affiorano facce straordinariamente simili le une alle altre dalle sponde più o meno vicine od opposte di questa nostra matrice acquea… è il Mediterraneo, arabo, ispanico, magnogreco… il mare di Jogale, Giufà, Nasreddin… ma anche il mare dei più fini pensatori, che non oso neppure provare ad elencare…Vabbè, fisserìj…Lo spagnolo (il castigliano) del XII secolo era molto più vicino al volgare italiano coevo di quanto non lo siano oggi le due lingue, ‘spagnolo’ e ‘italiano’. Anche questo è un segno di quella forte coesione ‘latina’ che fa spesso dire ‘una faccia, una razza’…
Ad ogni modo, quello che mi affascina del ‘Poema’, è qui, al di là di qualsiasi altra considerazione, e spero che possiate e vogliate sentirlo.
Spagnolo:
[El Cid sale de Vivar para ir al destierro]
De los sos oios tan fuertemiente llorando,
tornava la cabeça e estávalos catando;
vio puertas abiertas e uços sin cañados,
alcándaras vazías, sin pielles e sin mantos
e sin falcones e sin adtores mudados.
Sospiró Mio Çid, ca mucho avié grandes cuidados;
fabló Mio Çid bien e tan mesurado:
“¡Grado a ti, Señor, Padre que estás en Alto!
Esto me han buelto mios enemigos malos!”
Italiano:
[Il Cid (dall’arabo: signore’) lascia Vivar (il Cid è Ruy Diaz, signore di Vivar) per andare in esilio]
Dai suoi occhi così fortemente piangendo,
scuoteva la testa e si guardava intorno;
vedeva le porte aperte e gli usci senza chiavistelli,
le pertiche (da uccellagione) vuote, senza pelli e senza manti (per la caccia)
e senza falchi e senza astori di muda (la mudanza è un tempo in cui i rapaci cambiano il piumaggio, più o meno).
Sospira il mio Cid che tante ne aveva, di preoccupazioni;
parla il mio Cid, bene, e con tanta misura:
‘Grazie a te, Signore, Padre che sei nell’Alto!
Così m’han ridotto i miei cattivi nemici’
(traduzione fatta all’impronta, con molte licenze sui tempi verbali…)
Cirotano:
[U Patrunu nescia du paìsu ppè sinni jìr straviàtu u munnu munnu]
‘E l’occhj soj tantu fortu ciancennu,
toculìjava a capa e sinni jìa guardannu;
vidìva i port aperti e l’anti senza mašcu,
i pèrtichi vacanti, senza peddi e senza manti ppè cacciàr
e senza falchi e senza acuti.
Sušpira u Paţrunu, ca tanti n’avìa preoccupazzioni;
parra u Paţrunu, bonu e misuratu:
‘A tìja Signuru, ti ringrażiu, Paţru ca sì ntu cièlu!
Eccussì m’han arriddùttu i mej nimìci mali’.
Cataldo Antonio Amoruso
GRAZIE.