In quel tempo rimaneva come sospeso nei pensieri un luogo molto spesso irraggiungibile, per noi che eravamo i più giovani della compagnia.
‘La Cervara’: per questa parte di Ionio fatto di litorali perloppiù sabbiosi, con lidi[1] quasi sempre o almeno in parte abusivi e dune e sbocchi di fiumare deturpati dalla presenza di macchinari arrugginiti per l’estrazione di inerti, per noi dicevo ‘la Cervara’ aveva qualcosa di mitico, già nel nome, con quel suono che richiamava un animale, il cervo, decisamente fuori luogo.
Noi allora avevamo solo le mani, un costume da bagno e biciclette prese in prestito, ascoltavamo ammirati i racconti di chissà quali lupi di mare che ‘di notte, alla Cervara…’ riuscivano a risalire dalle profondità saline riportando creature marine dalle dimensioni mostruose: moscardini che diventavano piovre, saraghi che diventavano aggressivi palamiti, aguglie che diventavano barracuda, e squali di ogni tipo… quei poveri ‘caniceddi’[2] da infarinare e friggere, un pesce che rassomiglia sì al pescecane, ma è come accostare il gatto e il leone, più o meno le stesse proporzioni.
Naturalmente, nell’entroterra della Cervara, o più in là, verso Volvito, dove un tempo c’era una deliziosa stazioncina ferroviaria, letteralmente immersa tra gli eucalipti e la macchia mediterranea, senza una strada che la collegasse al resto del mondo, bene, da quelle parti si favoleggiava che si realizzassero gli incontri amorosi di questi giovani tritoni, allietati da chissà quali naiadi discinte…che noi, minori di età, immaginavamo con fervorosa immedesimazione.
C’è di buono che eravamo così disposti a credere alla nostra immaginazione, che potevamo tranquillamente sorvolare su quanto ci veniva propinato, al punto che chi raccontava, dopo un po’ parlava solo a sé stesso, mentre la nostra fantasia era già più avanti di qualche miglio.
Il caldo che ci siamo sorbiti in quei tempi era esagerato, faceva sempre troppo caldo, anche al mare, sicché preferivamo rimanere sotto l’acacia davanti al bar di Antonij, proprio dietro la stazione: ce ne stavamo sempre lì, potevamo dare lezioni di portamento a ramarri e gechi per la nostra perfetta immobilità; ad un certo punto ci siamo accorti che un ramo della nostra acacia più ambita si era curvato ad immagine delle nostre collottole così affezionate a quella posa.
Spesso ci domandavano cosa facessimo davanti a quel bar, perché non andassimo al mare, o –almeno la sera- alla marina[3]…Incredibile!!! Noi barattare la lettura dei prezzi della Coppa Rica o il controllo visivo di ogni minimo movimento d’anca o d’occhi con qualsiasi altra forma di movimento che non fosse oculare o labiale -intellettivo mi sembra troppo, troppo faticoso, volevo dire-…
E poi, vuoi mettere il fresco del cemento sotto i piedi con la sabbia della spiaggia tra le dita, che vi si insinua a giugno e le abbandona non prima di ottobre?
Alla chiusura delle scuole, le nostre vite si svolgevano davanti e dentro quel bar, non ci davamo neanche appuntamento: ci sapevamo, e se qualche volta abbiamo tardato, bene, si è trattato di un evento incontrollabile.
Davanti a quel bar abbiamo udito cose che voi umani… delle stupidaggini assolute che, non so dire come, diventavano favole, miti, certezze assolute, nel regno del sentito dire, dove tutto era ammesso, concedendoci a vicenda di credere alle sciocchezze che ci inventavamo: sapevamo di favoleggiare, di cercare di ammazzare il tempo, inutilmente provando ad infilzarlo con fole e trovate: il nostro accordo, tacito ma inderogabile, era di credere ognuno alle invenzioni dell’altro, ben sapendo quale fosse il limite invalicabile, oltre il quale non avremmo dovuto osare, dove cioè cominciava il pericolo dell’invenzione. Le nostre non erano menzogne, ma sogni tirati giù a forza, in attesa di realizzazione.
Disponevamo di così poco da poter confidare solo nell’intelligenza, o la sveltezza, la prontezza, l’intuito.
Eravamo molto benvoluti, devo ammettere, tipici liceali senza una lira in tasca…ai quali prima o poi sarebbe toccato, a loro volta, inventarsi le storie della Cervara o di Volvito…ma quando mai, già quelli più piccoli ci sopravanzavano con una arroganza per nulla celata, con qualche motorino fiammante, qualche paghetta in tasca…
E noi niente, indifferenti, immobili.
Quando era il momento, o meglio, quando non se ne poteva più, ci incamminavamo fino in paese, proseguivamo alternandoci a piedi e in bicicletta, a turno, fino a questa mitologica Cervara, e già maledicevo i lupi di mare e -chissà perché- il Kalevala[4], forse pensando a cervi di Finlandia (già nominare la Finlandia in Calabria, in estate, è come fare una doccia gelata, ma insomma… anche se devo dire che Ilmarinen, nei miei balbettìi, non mi suonava neanche tanto male).
Nicòl[5], ogni tanto, se ne usciva con qualche scoperta mirabolante: questa sarebbe stata la volta dell’inarrivabile ‘Saetta B’!
In realtà ci eravamo già armati di manici di scopa con forchetta o lama di coltello fissata ad una estremità, per le battute di pesca alla Cervara, per la nostra pesca d’altura a donzelle e violini che, mal che vada, si rimedia qualche patella o riccio!
Quel giorno, invece, Colìn arrivò entusiasmato da questa ‘Saetta B’, che aveva visto usare da un suo cugino più grande, Rafèl, e che altro non era che un piccolo fucile ad aria compressa (esageravo: una specie di forchettone con tre o cinque punte, azionato da una molla) per la pesca subacquea: un sogno… già ci vedevamo scendere negli abissi e stanare cernie mostruose, risalire in superficie chiedendo assistenza per portare a riva l’animale recalcitrante; sì, potrebbe essere una chiave di lettura, o un ricordo lasciato riaffiorare con benevolenza…in realtà seguimmo Nicòl immergere a fatica la testa sotto il pelo dell’acqua, con le spalle che ancora ne affioravano, quando improvvisamente un urlo disumano ci fece sobbalzare e temere: Nicòl correva sulle acque e, relicta sagitta[6], indicava in preda al panico qualcosa in direzione del mare.
Giunto a riva, ci lasciò capire che aveva visto un pesce enorme, un vero mostro, cercando intanto di calmarsi e invocando San Giorgio, non per il drago, ma per una abitudine che gli conoscevamo (Ahi a Santu Giorg!!![7])
Dopo un paio di minuti, sentimmo dalle labbra di uno sconosciuto bagnante sgorgare due labiali, esplosive come non mai, due lettere bi che annunciavano ‘’bbuono, iss è bbùon, ca’ pummarola!”, e certamente avrà avuto ragione, poiché il grongo che stava portando a riva non doveva essere deceduto da tanto tempo, e non occorreva un patologo per capire che il pesce era caduto da una barca e magari qualche pescatore se ne stava rammaricando in quel preciso momento: il forestiero non si era neanche bagnato al di sopra della cintola, quel maledetto reggeva la testa di Oloferne[8] senza neanche sporcarsi le mani…
In effetti, anche Nicolèdd aveva commesso un errore, di valutazione, di misura, per così dire, con l’acqua di mare che aveva riempito di paura la sua maschera alterando le proporzioni del mostro, e meno male che lo sconosciuto aveva recuperato e restituito anche la miracolosa ‘Saetta B’, tenendo per sé solo la salma del grongo dagli occhi da pesce lesso.
Ci avviammo verso il paese, locchi locchi[9], che vuol dire ‘piano piano e con la testa bassa’, rimandando il racconto delle nostre gesta a tempi migliori, che in questo momento mi sfuggono.
marzo 2010
[1] Per ‘lidi’ si intendono gli stabilimenti balneari, e null’altro.
[2] ‘Caniceddi’, in italiano significherebbe ‘cagnolini’, e la traduzione sarebbe semplicemente perfetta, da pesce-cane a pesce-cagnolino: si tratta di una varietà molto diffusa e di prezzo non eccessivo, perloppiù destinata a larga padella (‘fressùra ranna’) con abbondante olio.
Ad ogni modo, se non vado errato, dovrebbe trattarsi del pesce noto come ‘canesca’, ‘galeorhinus galeo’, appartenente all’ordine ‘carcharhiniformes’, cioè…pescecani!
[3] Quello del ripopolamento dei litorali ionici della Calabria, con la formazione delle ‘marine’, è un fenomeno per il quale rimanderei a ‘Formazione e sviluppo di Cirò Marina’, della professoressa Maria Luisa Gentileschi, in ‘Studi Meridionali’, Roma 1970.
[4] Se ben ricordo, dovrebbe trattarsi del paradiso dei finlandesi: l’ho appreso dalla ‘Clessidra’, la mia amata antologia delle medie.
[5] Nicòl, Colìn, Colinèdd… vorrei tanto avere la preparazione -e sufficiente intelligenza- per scrivere qualcosa a proposito dell’uso degli alterativi nella onomastica dialettale; è, questo uso degli alterativi, da non sottovalutarsi: con un semplice tocco, un passaggio da ‘Totònn’, ad esempio, a ‘Totonnèdd’, o a ‘Totonnùzz’ si dice tanto della condizione e della situazione affettiva e sociale del nominato, ancor più se ad esempio si passa da ‘Totònn’ a ‘Tònij’ e da ‘Totonnèdd’ a ‘Toninèdd’…sempre di un Antonio si tratta, ma dentro e dietro all’uso dell’alterativo c’è tutta una concrezione secolare, che non impedisce l’immediatezza della scelta del nome. Insomma: si tratta di una scala classificatoria, per censo e affetti, molto estesa, che in italiano non mi è dato di riscontrare. O di intendere.
[6] Non so se qualcuno ha pronunciato prima di me queste due parole, ma mi piacevano, come ‘rupto corpore’, quella era la rana che era schiattata, qui è ‘abbandonata la saetta’…ma quasi quasi vorrei dire ‘sparse le tracce’, tanto, sempre di accusativo alla greca si tratta (o no?!)
[7] Anche nelle imprecazioni vale un po’, ma solo un po’, quanto detto alla nota 5.
[8] Mò, non andiamo troppo per il sottile che Giuditta era femmina e il bagnante simil-napoletano era maschio…
[9] E’ uso corrente presso i ‘naturali’ di Cirò, e sua Marina, raddoppiare l’aggettivo o il sostantivo, sia nella formazione del superlativo (‘rannu rannu’ per ‘grandissimo’) sia nella realizzazione, p. e., del complemento di moto per luogo: ‘a ruva a ruva’, ‘per le strade del rione’, ‘a casa a casa’, ‘per casa’, o nell’espressione del modo: ‘loccu loccu’, ‘quetu quetu’, ‘a rasa a rasa’…eccetera (eccetera).
*98 significa km 198 (è abbreviato per gli amici…) della linea ferroviaria Taranto-Reggio Calabria C.le, la favolosa ‘jonica’, che tocca anche Medellìn, Cali, o forse Cartagena e Barranquilla, ma di sicuro, e solo volendolo, sfiora e accarezza tutte le/i Macondo che non si staccano dall’anima…
** nel testo ci sono degli errori e delle inesattezze, non darti pena, mio unico lettore/passante: li lascio così, sono le cose che mi vengono meno peggio, gli uni e le altre e poi… mi divertono!
Cataldo Antonio Amoruso
A Gammitta u ‘nce’ cchjù Se siccata. Per andare alla Cervara si va da Madonna di Mare. La mia spiaggia è Punta Alice vicino al faro.Saluti
‘A gammitta’ c’è, Katia, non confonderti, e non lasciarti abbattere… c’è nel libro di G.F. Pugliese, c’è nell’Identità della memoria di Ferrari, e c’è, per quanto ‘siccata’, tra ‘a difìsa’ e Madonna ‘e mare… e c’è nei vocabolari: fortunatamente non tutto ciò che muore viene dimenticato: una cosa è la morte, altra l’oblio… non so se mi spiego. Per la tua spiaggia… ottima scelta! Saluti ricambiati.
U ‘mpromu è la medusa. appilare u leggjiu significa togliere il tappo che chiude il buco della barca per far uscira l’acqua che sie raccolta ‘ntu vuzzareddu. Saluti
Grazie, Katia, per la conferma.
‘Appilare’ viene da ‘oppilare’, termine poco noto che significa ostruire, tappare, otturare. U ‘leggiu’ è l’italiano ‘aleggio’, più correttamente ‘alleggio’, dal francese alège, che è il tappo sul fondo delle piccole imbarcazioni proprio come tu dici.
Per la medusa, secondo uno studio di Giovanni Alessio, catanzarese, linguista di primaria importanza, ‘ambrome’ (in tarantino) è la melma di mare frammista a pesci morti che spesso vengono a galla con conseguente rilascio di cattivo odore (parole sue), poiché questo signiifica, in greco, la parola da cui deriva il calabrese mbromu o mpromu: puzza
Questo potevo saperlo per conto mio, ma sentirlo dalla figlia di uno che in mare ha vissuto è tutta un’altra cosa. Con questo ti ringrazio e ti auguro dei bei bagni… alla Cervara, magari passando per ‘a gammitta’, altrimenti dovrai farti un bel pezzo a piedi… ma tanto una ‘gammitta’ saprai cos’è. Ciao.
Vuoi sapere tutti i nomi in cirotano del linguaggio dei pescatori?Io li so tutti perchè mio padre è(mi correggo era pescatore e mi ha insegnato anche come si fa a calmare il dolore quando una tracina punge qualcuno e ci lascia il veleno. I virdeddi si possono mangiare, sono commestibili e hanno il sapore del pesce spada. Sei informato su quando i pescatori andavano a Tacina e mangiavano le tartarughe è vero, erano altri tempi.BELLISSIMI
Magari! Cosa aspetti a scriverli? Sono sicuro che ‘il Cirotano’ li accoglierebbe e pubblicherebbe volentieri, e altre persone potrebbero aggiungere osservazioni e suggerimenti, collaborando affinché certe conoscenze non vadano perse… Della tracina mi avevano detto, tanto tempo fa. E anche delle meduse, u ‘mpromu’… verifica per favore: la medusa si chiama ‘mpromu’, o no? Credo che nel cirotano comune ormai questa parola indichi semplicemente una persona perniciosa, un impiastro, ad esempio nella frase ‘sì nu mpromu’…e invece ha una etimologia ancora viva, rintracciabile.
I virdeddi, mi sbaglierò, ma forse sono il pesce smeriglio (chiamato anche ‘vitello di mare’… vai a sapere, tra viteddi e vaccareddi). E saprai anche cosa significa ‘appilare’, termine che normalmente da noi non si usa e che usano solo i ‘marinari’, ma che in altre regioni del sud è di uso corrente: turare.
Quindi… dàtti da fare.
Perchè sei amareggiato per tutto quello che è successo? Sei una persona, per come ho intuito,( non so se mi sbaglio) molto semplice e capisci tante cose e se ti chiedo un parere e perchè mi fa piacere riceverlo da te Saluti katia
Ti devo delle scuse, Katia: mi sono sentito ‘disorientato’, ed è vero, come è vero che ho provato una certa amarezza, che magari coincide con quello che tu indichi come ‘tutto quello che è successo’, cosa che mi ha indotto a cercare di essere meno presente o invadente…. a seconda dei punti di vista. Grazie per la stima.
Hai fatto una descrizione poetica della località cervara. Bellissima.La località ha sempre costituito nel passato un importante punto di riferimento per la pesca. Infatti nell’imperversare incessante dei venti del sud ,” e chira vanna” cioè,oltre la punta alice era possibile effettuare la pesca.Venivano trasportati con i carri agricoli tirsti dai buoi i “” vuzzareddi”” e le reti . I punti di riferimento erano : Capo scuro, Cervana, Volvito, ed infine Tacina. La zona si animava di pescatori, famigliari, acquirenti dei prodotti e curiosi.
Non puoi immaginare ( se non li hai visti ) la bellezza di quei luoghi senza carcasse di lavatrici, bombole di gas e bidoni e taniche varie. E le dune, non violentate dall’uomo, erano di una bellezza unica.
Io ho avuto la fortuna di goderle quelle bellezze che rimpiango. Avrei sperato che qualche esecizio adottase i nomi di quei luoghi. ma preferiscono nomi impronunciabili appartenenti ad altre lingue .
Vi immaginate un lido ” Capo Scuro ” ?
Grazie Quintino, questa cosa sulla Cervara l’avevo scritta qualche tempo fa, ‘in tempi non sospetti’, o quasi… Le cose che tu dici sono altrettanto vere, e forse di più, perché le arricchisce la patina di un ricordo ancora più lontano nel tempo. Negli anni ’70, adolescente o poco più, ho cominciato ad amare e capire qualcosa per me di fondamentale: il silenzio dei luoghi. Tante cose le ricordo anch’io… anche il fumaiolo – o come si chiama, o quello che era – di un piroscafo, magari era solo un piccolo bastimento – che ancora affiorava nelle acque del Fego… avevamo i Caraibi in casa, a quel tempo. Quest’anno voglio andare da mio zio Pietro Martino, decano dei pescatori cirotani, e farmi raccontare di nuovo delle tartarughe che i marinari cutronisi mangiavano ‘a Neto’, quando insieme a loro andava a remi dalla marina -la nostra – fino a quella di Catanzaro. E ce ne sarebbe da dire… ma non voglio annoiare nessuno. Grazie a tutti.
A proposito dei “caniceddi” a me risulta che trattasi di “gattucci” (!), Esistono pure i “vaccareddi” dello stesso genere ma meso affusolati. Trattasi di squaletti commestibili, con caratteristico sapore “mmestinu” ma eccellenti e senza lische. I bastoncini Findus sono fatti di questi pesci.
La “canisca” o “virdeddu” sono squaletti che spesso capitavano nei “ciancioli” o attaccati ai “conzi” (leggi palamiti), insieme a caniceddi e vaccareddi. Molte volte si avvicinavano a riva. Non erano (dico erano perchè non se ne vedono più,pericolosi o dannosi, ma di nessun interesse commerciale perchè non commestibili. Venivano ributtati in mare.
Se sbaglio puoi correggermi.
Un saluto
Avrai certamente ragione, Quintino, quelle cose che ho annotato hanno un certo sapore scherzoso… in sintonia – così speravo, almeno – con il resto del racconto. Ricordo che avevo cercato in rete (nel web, non ‘nta rizza, ovviamente) e alla fine ero più confuso di prima. Se penso che mi ci è voluta una vita per capire come si chiama a papotula in italiano, o a cucuzza ‘e acqua… mi sa che devo campare parecchio per poterti correggere… sempre che tu abbia torto. Grazie.
Ho voluto fare una capatina alla Cervara, per vedere quale disastro (da molti paventato) avesse combinato Cataldino Bonessi. Ho trovato un ambiente recuperato, pulito e vivo per la presenza di persone e cose che dovrebbero garantire un piacevole relax, favorito dalla eccellente posizione del luogo. Nulla è mutato nè trasformato.Solo che ora è pulito e … sorvegliato.L’entusiasmo del gestore, unito alla sua gentilezza e cortesia, è ammirevole e,probabilmente, l’iniziativa può trovare sviluppo senza che l’ambiente venga disturbato. Anzi, è arricchito da animazione e colori. Abbiamo temuto erroneamente chissà quale disastro. Invece dovremo ora plaudire all’iniziativa.
Mi fa piacere che tu ti sia ricreduto; ritengo che ammettere i propri errori, anche solo di valutazione, sia un atteggiamento positivo. Per quanto mi riguarda alla Cervara ci vado almeno due o tre volte al giorno, ma a darci le ‘capate’ contro frigoriferi, lavatrici e plastiche varie, sentendomi sempre più estraneo, a rendermi conto di essere un ormai patetico epigono di questi luoghi, un inadeguato Chisciotte (senza il ‘Don’) di questo paese che era l’unico che potevo avere e che nessun altro luogo potrà sostituire… e allora me ne vado in silenzio a fotografare rovine di cepie e tramonti, a cercare di capire cosa era la vita in queste case in via di estinzione del Tirone, dove tra l’altro sono nato. Ma queste mie sono note personali della serie ‘e chi se ne frega’… Grazie,
Cataldo Antonio Amoruso, Cirò Scalo/Pc.
Sono Katia.Per prima un saluto, poi vai a guardare la nuova poesia di Caterina Filippelli Ciao
Ricambio il saluto, e rimango disorientato. Sento che mi vuoi dire dell’altro, non saprei, forse mi vuoi dire di imparare meglio il cirotano, o vuoi sapere cosa io ne pensi… e in questo caso ti direi che il mio pensiero non conta nulla, che non ho i titoli adeguati, e che per nessun motivo giudicherei il sentire altrui, la forma forse sì, ma solo per saperne di più, per imparare. Ciao e grazie.
già fatto…
grazie
Vai a leggere la poesia Na crucivjia e nu pajsu Katia