In questa ennesima ‘documentazione’ sul dialetto cirotano vorrei parlare di una canzone dal testo altamente poetico e che sembra avere origini cirotane, o che, perlomeno, è stato riscoperto a Cirò e per merito di un ricercatore ‘ipsicroneo’ (così ci prendo sia la Marina, sia Cirò Superiore). ‘Riturnella’ è più nota di quanto si possa pensare, anche grazie alle risorse offerte da internet, dove si possono reperire le interpretazioni di vari artisti, oltre a traduzioni in inglese, francese, spagnolo, greco. Direi quindi che si tratta di un testo molto amato. Spero che possa esserlo anche presso i cirotani. La versione che propongo è ripresa da internet e le note che vi ho apposto, essendo dirette non solo a lettori cirotani – dal momento che sono apparse anche su un blog ‘nazionale’ – in qualche caso potranno sembrare superflue al parlante ‘ipsicroneo’. Riprendo il tema di ‘Riturnella’, poiché è un componimento, musicale e poetico, che prediligo e che mi ‘prende’ sempre. In fondo, afferrare il fruitore è una delle caratteristiche e funzioni salienti della lirica, associata o meno che sia alla musica o al canto. Ripropongo queste riflessioni anche confortato dal giudizio positivo che esse hanno ricevuto da parte del professor Antonello Ricci. Il mio approccio alla cultura è, fondamentalmente, autodidattico e improntato ad un ‘interessato diletto’; in pratica mi confronto coi testi e le materie che arbitrariamente scelgo: ovviamente la mancanza di un confronto comporta dei rischi, per quanto innocui. Da qui deriva la soddisfazione per le parole di apprezzamento da parte dello specialista prof. Ricci, al quale va il mio ringraziamento. ‘Riturnella’ è un canto popolare calabrese, molto meno noto di ‘Calabrisella mia’, riscoperto negli anni ’70 (del ‘900) dall’etnomusicologo cirotano Antonello Ricci, del quale, pur nella mia poca conoscenza della materia musicale, segnalo ‘La capra che suona’ (E. Salvatorelli Editore, collana ‘squiLibri’, Roma 2004), libro scritto a quattro mani con Roberta Tucci, in cui ‘fotografa’ la musica popolare calabrese, anche – ma non solo – attraverso un ricco apparato iconografico al quale l’uso della fotografia in bianco e nero conferisce una ulteriore patina di aderenza alla realtà ritratta. Successivamente questo ‘canto popolare’ è stato reso relativamente famoso da Eugenio Bennato, con l’album ‘Musicanova’ (1978). Credo di poter dire che ‘Riturnella’ sia un canto di estrazione popolare, ma non ‘popolaresco’ come ‘Calabrisella mia’, considerando tra l’altro che ‘Riturnella’ è stato riscoperto dal Ricci grazie alla memoria di una anziana donna di Cirò, Manciulina Pirito, che ne ricordava le parole, mentre ‘Calabrisella mia’, ad esempio, io la conoscevo perché alle elementari me la fecero imparare a memoria. E fecero bene, tra l’altro, benché la versione ‘scolastica’ non brilli certo per il suo valore musicale che, specie in certe versioni più spiccatamente commerciali e folkloristiche, nel senso negativo del termine, riesce persino imbarazzante. Discorso diverso merita invece la ‘Calabrisella’ delle origini, questa sì ‘popolare’, nel senso nobile che vorrei allegare a tale termine, e che, come indicatomi dal professor Ricci, si può rintracciare nel brano, presente nel cd allegato a ‘La capra che suona’, recante il titolo ‘A Rosabella’, un canto tipico della provincia di Cosenza.
Si tratta, nella versione registrata a Torano Castello nel 1984, di un breve componimento narrativo che il fine orecchio dello studioso ha fatto risalire alle origini della molto più nota e diffusa ‘Calabrisella’, con la quale, a ben vedere, ha poco da spartire, quanto a valore storico e demologico. I due brani, ‘A Rosabella’, e ‘Riturnella’ sono presenti nel cd della rivista ‘World Music’, per la serie Tribù Italiche, dedicato alla Calabria (2004), con la splendida esecuzione, per quanto riguarda Riturnella, del trio ‘Xicrò’, composto dallo stesso Ricci, Alessandro Cercato e Arnaldo Vacca… e pensare che solo grazie all’acquisto quasi fortunoso di quella rivista ho avuto modo di conoscere questa splendida poesia! Nel riproporre queste note, che vogliono significare soprattutto il mio amore per questo brano e per le mie origini, ho tenuto conto dei suggerimenti che il professor Antonello Ricci mi ha cortesemente offerto in uno scambio di mail. Ovviamente lo ringrazio tanto per i complimenti nei miei confronti, quanto per le osservazioni che ha mosso e che evidenzierò nel resto dello scritto. Lo stesso docente, del resto, premettendo che sulla traduzione da me proposta ‘è sempre difficile trovare una chiave interpretativa per tradurre un testo che di fatto è poetico’ afferma giustamente che ‘le traduzioni sono sempre frutto di interpretazioni e quindi non univoche o filologicamente più o meno esatte.’ E aggiunge che ‘…oggi il testo di Riturnella è stato sottoposto a talmente tante variazioni lessicali, e dialettali, che non è possibile ricostruirlo se non ricorrendo alla versione originaria cantata da Manciulina Pirito a Cirò. Ma anche quella era la sua versione, magari altre persone l’avrebbero cantata con altre leggere differenze.’ A questo aggiungerei che un atteggiamento diffuso, vuoi per gioco, scherno o parodia, vuoi per errata o incompleta conoscenza delle parole, è proprio quello di ‘contribuire’ alla corruzione dei testi originali. Nella mia traduzione, la parola ‘rìnnina’ è resa con ‘rondine’ e la parola ‘riturnella’ con ‘rondinella’. Antonello Ricci mi fa notare che in fondo non c’è bisogno di tradurre ‘riturnella’ con ‘rondinella’, dal momento che ‘in realtà è intraducibile essendo un cosiddetto inserto non sense’. La tesi è inappuntabile, ma conservo la traduzione con rondine e rondinella, in quanto mi sembrano ‘orecchiabili’ o ‘cantabili’ anche in italiano, a differenza di rìnnina. Tra l’altro la parola rondinella è ormai entrata anche nel dialetto cirotano. In realtà, la parola ‘riturnella’, a differenza di quanto attestato in giro da vari traduttori di questo testo, non è termine calabrese per indicare la rondinella… ma, a mio modesto avviso, indica una tecnica di canto, per cui non dovrebbe leggersi, ‘a (articolo determinativo) riturnella’ come ‘la rondinella’, ma ‘a (preposizione) ritornelli’, ‘alla maniera dei ritornelli’, cioè come un canto fatto di ritornelli… Se di cirotano si tratta, poi, in questa parlata esistono solo ‘rìnnina’, ‘rinninèdda’, ‘rinninùnu’, con quest’ultima parola ad indicare il rondone e non il maschio della rondine.
Questo il testo originale. Alla fine trovate il video del brano
Tu rìnnina chi vai (Tu rondine che vai)[1] (A)
Tu rìnnina chi vai (Tu rondine che vai) (A)
Lu maru maru (Per mari e mari)[2] (B)
Oi riturnella (O rondinella)[3] (C)
Tu rìnnina chi vai lu maru maru (Tu rondine che vai per mari e mari (D)
Ferma quannu ti dicu (Ferma quanto[4] ti dico)
Ferma quannu ti dicu (Ferma quanto ti dico)
Dui paroli (Due parole)
Oi riturnella (Oh rondinella)
Ferma quannu ti dicu dui paroli (Ferma quanto ti dico due parole)
[1] – Il testo consta di 16 cinquine che rispettano il seguente schema: un verso ripetuto (A+A), esteso al terzo (B), l’invocazione nel quarto (C), con la ripresa e il completamento nel quinto verso (D), che è composto da A+B; il verso che ho segnalato con la lettera ‘D’ rima con le due ‘B’ precedenti, e si potrebbe anche leggere, di conseguenza, uno schema AABCB (AABCA/B, dove A/B è un verso unico).
[2] – Il raddoppiamento lessicale è di uso comune e naturalissimo nei dialetti calabresi, sia nella formazione di superlativi di aggettivi, come in italiano, ma anche, diversamente da questo, nella formazione di complementi di moto per luogo, del tipo ‘u maru mar’, lungo il mare, ‘a riva riva’, lungo la riva, ‘a rasa rasa’, ‘camminare seguendo una linea radente i muri delle case, con circospezione, ‘a ruva ruva’, per le strade del rione… Il professor Ricci ritiene si debba tradurre semplicemente ‘per mare’. Ciò è esatto, ma il mio ‘per mari e mari’ è dovuto oltre che alla distanza abissale dei due innamorati, anche ad una sorta di peso, di misura, che impostami dal mio modo di intendere il verso.
[3] – Nel testo in calabrese appare solo l’interiezione ‘Oi’: ritengo che ‘Oi’ si disponga a diverse interpretazioni, relativamente alla diversa intonazione delle richieste rivolte alla rondine; questo ho creduto di fare traducendo talvolta con ‘O’, talaltra con ‘Ohi’, e ancora con ‘Oh’, a segnalare passaggi più o meno dolenti. Ricci osserva che ‘’Oi è una interiezione che spesso ha senso soltanto ritmico e non emotivo’’.
[4] – La lezione ‘quannu’ non mi trova d’accordo, nel senso che ritengo ‘quantu’ molto più coerente col testo e con la parlata calabrese: quel ‘quantu’ significa ‘giusto il tempo di’, ‘solo il tempo che mi serve per…’ e collima secondo me perfettamente con il tono invocativo del testo. Ad un ascolto successivo del brano si sente in effetti la pronuncia ‘quantu’, in luogo del ‘quann’ del testo oggetto di questa traduzione.
Corri a jettari lu (Corri a gettare il)
Corri a jettari lu (Corri a gettare il)
Suspiru a mari (Sospiro a mare)
Oi riturnella (Ohi rondinella)
Corri a jettari lu suspiru a mari (Corri a gettare il sospiro a mare)[5]
Pe’ vìdiri se mi rišpunna (E guarda[6] se mi risponde)
Pe’ vìdiri se mi rišpunna (E guarda se mi risponde)
Lu mio beni (Il bene mio)[7]
Oi riturnella (O rondinella)
Pe’ vìdiri se mi rišpunna lu mio beni (E guarda[8] se mi risponde il bene mio)
Non mi rišpunna annò, (Non mi risponde, no)[9]
Non mi rišpunna, annò (Non mi risponde, no)
È troppu luntanu, (E’ troppo lontano)
Oi riturnella (Ohi rondinella)
Non mi rišpunna, annò, è troppu luntanu (Non mi risponde, no, è troppo lontano)
È sutt’ a na frišcura (E’ sotto una frescura)[10]
È sutt’a na frišcura (E’ sotto una frescura)
Chi sta durmennu, (Che sta dormendo)
Oi riturnella (O rondinella)
È sutt’a na frišcura chi sta durmennu (E’ sotto una frescura che sta dormendo)[11]
Poi si rivigghja cu (Poi si risveglia con)
Poi si rivigghja cu (Poi si risveglia con)
lu chjantu all’occhi (Il pianto agli occhi)
Oi riturnella (Oh rondinella)
Poi si rivigghja cu lu chjantu all’occhi (Poi si risveglia con il pianto agli occhi)[12]
[5] – Nel ‘gettare il sospiro a mare’ trovo non del tutto peregrino un richiamo alla disperazione; del resto la rondine non ha bisogno del mare per farsi portatrice del sospiro della voce della amante che parla, ma è il mare nella sua immensità anche paurosa e distanziatrice che deve farsi ‘mezzo’ di quel sospiro. Annoto che mi sarei aspettato, in luogo di ‘lu suspiru’, (‘il sospiro’), un ‘su suspiru’, (‘questo sospiro’); tra l’altro l’uso di ‘su’, dimostrativo, è talmente diffuso che si preferisce e sovrappone all’articolo determinativo ‘il’, ‘lo’.
[6] – ‘Pè vìdiri’, in realtà il raddoppiamento fonosintattico è inevitabile, raddoppiandosi la ‘p’ iniziale, e trasformandosi la ‘v’ in una ‘b’ (ppè bìdir), altrimenti l’accento si sposta sulla seconda ‘i’ con raddoppiamento della ‘v’: pè vvidìr, fenomeno che posso attestare senza ombra di dubbio nel dialetto di Cirò/Cirò Marina. Il significato di ‘vidir ca’ è ‘vedi che’, ‘stai attento, bada, guarda, controlla che…’
[7] – ‘Lu mio beni’ è forma ‘culturale’, dal momento che la dizione comune è ‘u benu meju’, ‘u benu mè’. Come dire: un ‘mio’ così formulato, in calabrese, non credo esista.
[8] – Ritorno un attimo sul dialetto in uso nel testo: date per scontate contaminazioni tra varie parlate di Calabria, quel verbo all’infinito retto da un ‘ppè’ restringe alquanto l’areale dialettale, escludendo tutta la Calabria a sud di Crotone, dove, come già attestato nella grammatica di D’Ovidio e Meyer-Lubke, inizi ‘900, si dovrebbe leggere un ‘ppè mu’ oppure ‘ppè ma’, quindi ‘ppè mu/ma vidi’, ‘ppè nu mu vidi’.
[9] – ‘Annò’ non mi trova assolutamente d’accordo, è solo il legamento, la continuità fonica, tra ‘rišpunna’ e ‘no’, che essendo raddoppiato inizialmente suona come un annò: ‘non mi rišpunna, nnò’ (oppure: ‘umm’ arrišpunna, nnò). Si potrebbe forse scrivere anche ‘Nu’ mi rišpunna no’, tenendo presente il raddoppiamento fono sintattico, suonando quindi come un ‘nummirišpunnannò’, con accento secondario sulle due ‘u’.
[10] – La traduco con ‘frescura’, questa ombra riposante, magari prodotta da un albero o una pergola, dove l’amato lontano è colto dal sonno per le fatiche del corpo e dell’anima, e magari anche per lenire le pene d’amore, considerando il risveglio.
[11] – Qui voglio immaginare che la rondinella sia arrivata sul luogo dell’amato e che la voce parlante sia quasi trattenuta, frenata da quel sonno di cui ‘il mio bene’ ha bisogno, anche se costa una nota di malinconia nell’invocazione…
[12] – E infatti il sogno dell’amato era animato e percorso dal ricordo della donna ‘poetante’, sicché egli si sveglia e asciuga le lacrime dagli occhi: è stato solo un attimo quel timore avvertito nelle strofe precedenti, quella paura che la voce non potesse essere udita per la troppa distanza.
Si stuja l’occhi e li (Si asciuga gli occhi e gli)
Si stuja l’occhi e li (Si asciuga gli occhi e gli)
Passa lu chjantu (Passa il pianto)
Oi riturnella (Oh rondinella)
Si stuja l’occhi e li passa lu chjantu (Si asciuga gli occhi e gli passa il pianto)[13]
Piglia lu muccaturu (Prendi(gli)[14]il fazzoletto)
Piglia lu muccaturu (Prendi(gli)[15] il fazzoletto)
Lu vaju a llavu (Vado a lavarlo)
Oi riturnella (Oh rondinella)
Piglia lu muccaturu, lu vaju a llavu (Prendi(gli) il fazzoletto, vado a lavarlo)
Poi ti lu špannu a nu (Poi te lo stendo[16] ad una)
Poi ti lu špannu a nu (Poi te lo stendo ad una)
Peru de rosa (Pianta[17] di rosa)
Oi riturnella (Oh rondinella)
Poi ti lu špannu a nu peru de rosa (Poi te lo stendo ad una pianta di rosa)
Poi ti lu mannu a Na (Poi te lo mando a Na)
Poi ti lu mannu a Na (Poi te lo mando a Na)
puli a stirare (Poli a stirare)
Oi riturnella (Oh rondinella)
Poi ti lu mannu a Napuli a stirare (Poi te lo mando a Napoli a stirare)
Poi ti lu cogliu a la (Poi te lo piego alla)[18]
Poi ti lu cogliu a la (Poi te lo piego alla)
Napulitana (Napoletana)
Oi riturnella (Oh rondinella)
Poi ti lu cogliu a la napulitana (Poi te lo piego alla napoletana)
Poi ti lu mannu cu (Poi te lo mando col)[19]
Poi ti lu mannu cu (Poi te lo mando col)
Ventu a purtari (Vento a portare)
Oi riturnella (Oh rondinella)
Poi ti lu mannu cu ventu a purtari (Poi te lo mando a portare col vento)[20]
[13] – ‘Passare il pianto’ è costruzione simile all’italiano ‘Passare l’appetito’, ad esempio.
[14] – Il desiderio si sta compiendo: ora la rondine dovrà prendere il fazzoletto che trattiene le lacrime dell’amato e portarlo alla innamorata perché possa lavarlo, stirarlo e ripiegarlo secondo un preciso rituale, addirittura inclusivo di un viaggio di andata e ritorno fino ad una Napoli lontanissima, a quei tempi irraggiungibile ai più, capitale del Regno.
[15] – Non escluderei una lettura di quell’articolo ‘lu’ con un dimostrativo ‘ddu’, quello.
[16] – Nel senso specifico di ‘sciorinare’. Quel ‘te’ di ‘te lo stendo’ è un dativo etico.
[17] – In dialetto calabrese ‘peru’ è propriamente piede, in tutte le comuni accezioni, e albero, pianta: ‘per(u) ‘e rosa’ quindi significherebbe più precisamente ‘albero di rosa’, ma in questo contesto indica la pianta della rosa, il rosaio.
[18] – Còglir, cògghir, cogghjìr, ha vari significati: qui è senza dubbio piegare, come dicesi dei panni asciutti, anche se non è del tutto peregrina una traduzione che preveda il significato di ‘raccogliere’, nel senso di ‘ritirare’ il fazzoletto dal rosaio dove è stato steso (spannùtu).
[19] – E’ quasi superfluo annotare che i due ‘cu’ corrispondenti, nell’originale, sono sottoposti a raddoppiamento: ‘ccu’, ‘con’.
[20] – Altra tipica costruzione idiomatica, dove nell’uso di ‘mando’ seguito dal verbo all’infinito si potrebbe anche avvertire qualcosa di pleonastico: te lo mando a portare con il vento (complemento di mezzo, ma, volendo modificare la costruzione, si potrebbe leggere come un complemento di causa efficiente, anche).
Ventu và portacellu (Vai vento e portaglielo)
Ventu và portacellu (Vai vento e portaglielo)
A lu mio beni (Al mio bene)
Oi riturnella (Oh rondinella)
Ventu và portacellu a lu mio beni (Vai vento e portaglielo al mio bene)[21]
Mera pe’ nun ti cara (Attenta[22] che non ti cada)
Mera pe’ nun ti cara (Attenta che non ti cada)
Pe’ supra mari (Di sopra al mare)
Oi riturnella (Oh rondinella)
Mera che nun ti cara pe’ supra mari (Attenta che non ti cada di sopra al mare)
Ca perda li sigilli (Ché perdi i sigilli)[23]
Ca perda li sigilli (Ché perdi i sigilli)
De chistu cori (Di questo cuore)
Oi riturnella (Oh rondinella)
Ca perda li sigilli de chistu cori. (Ché perdi i sigilli di questo cuore)[24].
[21] – Le strofe in rosso non sono presenti nella versione musicata dall’ottimo Eugenio Bennato; aggiungo un ‘purtroppo’, in quanto queste due strofe sono altamente esplicative dell’azione: al vento e al viaggio in senso inverso della rondinella viene affidato quel fazzoletto affinché torni dall’amato proprietario, dopo aver provato le cure amorose della donna.
[22] – ‘Meràr’ è ‘guardare’, nelle sue varie accezioni, come in spagnolo e nel latino da cui deriva insieme all’italiano ‘mirare’. Ma significa anche ‘guardare’ nel senso di ‘fare attenzione che/a…’. Altra costruzione sintattica richiederebbe un ‘mera ca un ti cada…’
[23] – E quindi l’invocazione finale alla rondine risulta essere che la stessa faccia attenzione, in quel viaggio di ritorno, che non cada in mare quel fazzoletto che è il depositario di quei sigilli del cuore della donna. ‘Sigillare’ è un termine di grande portata in dialetto calabrese, come un sinonimo di chiusura totale ad una ‘alterità’ alla quale non è permesso in alcun modo di intromettersi nella vita dei ‘custodi/depositari’ di quei sigilli.
[24] – Tornando alla provenienza geografica del canto, annoto, sulla scorta di questo verso conclusivo, che se di Cirò si tratta, il suo dialetto prevedrebbe l’uso di una ‘erre’ eufonica, poco marcata, tra il verbo ‘perda’ e ‘i sigilli’, non contemplandosi, come articolo determinativo plurale la forma ‘li’. Tra l’altro, ma questa è una supposizione mia, ‘sigilli’ dovrebbe essere una forma ‘nobilitata’, poiché in cirotano sarebbe ‘sincìddi’ o ‘ siggìddi’: sono, queste, notazioni marginali, poiché, anche all’interno di una espressione strettamente dialettale si possono produrre esiti differenti, dovuti ad una sorta di adeguamento ad un dialetto ‘più esteso’, o regionale, come dire: una fase di avvicinamento a quella lingua nazionale sconosciuta, l’italiano, attraverso un approccio ad una parlata che si ritiene più riconoscibile almeno in ambito regionale. Tra le altre cose, parlare di ‘dialetto calabrese’ non credo sia del tutto esatto: ritengo più giusto parlare di un ‘continuum dialettale calabrese’: i nativi di Reggio, Catanzaro, Castrovillari si intendono, tra di loro, ma per linee sempre più grandi e proporzionali alle distanze intercorrenti tra i luoghi d’origine. E proprio questo mi sembra di poter dire, cioè che il ricorso a forme non strettamente locali sia un tentativo, più o meno consapevole, di abbreviare o annullare queste distanze.
*Nel video mancano alcune strofe
Cataldo Antonio Amoruso
da Piacenza