Cari ‘pajsani’…
mi rivolgo a voi con questo termine, ‘pajsani’, per rivendicarne la valenza. ‘Essere pajsani’ ci identifica e qualifica; a torto questa parola viene cancellata dall’uso comune, cirotano e meridionale, ritenendosi dai più come qualcosa di poco nobile o di cui vergognarsi, quasi come se essere ‘pajsani’ fosse un ostacolo verso quella modernità alla quale si tende troppo spesso in maniera dissennata o sconclusionata; quasi come se essere pajsani fosse una etichetta da scrollarsi al più presto di dosso; quasi come a dare ragione al signor Corrado Augias del quale, in alcune apparizioni televisive, ho trovato fuori luogo e poco elegante l’insistenza sulla formuletta del ‘familismo amorale calabro’, la cui paternità veniva fatta risalire al solito, immancabile, ineffabile sociologo americano di turno; quasi come se la più che secolare stupidità di Cesare Lombroso sulla naturale inferiorità dei meridionali potesse trovare ancora giustificazione e accoglienza nell’ambito scientifico. Essere ‘pajsani’ non vuol dire invadere le vite private altrui, a qualsiasi latitudine siano esse vissute, solo in virtù, o stante l’obbligo, di una comune origine. Essere pajsani vuol dire, soprattutto, sapere chi siamo e da dove veniamo; ché dove andremo, uniti o divisi, lo sa forse solo il destino, ma questo, secondo un detto attribuito alla saggezza araba, ci aspetta sulla strada che facciamo per evitarlo… E allora non vergognatevi di essere, ‘pajsani’, accettando di buon grado questa condizione, che è soprattutto umana solidarietà e comprensione tra persone originarie di una terra con la quale la storia è stata troppo spesso ‘ostile’. Di ‘paisanos’ parla John Steinbeck; di ‘paysanos’ parla tanta letteratura sudamericana, con diverse sfumature di significato; di pajsàn, pajsanùzz, pajsanèdd abbiamo tutto il diritto di parlare anche noi cirotani, che si viva a Londra, Buenos Aires, Verona, Cirò Marina o Umbriatico…
E se lo reclamiamo noi questo diritto, che il mondo lo abbiamo popolato in lungo e in largo senza atlanti né navigatori satellitari, qualche ragione la avremo pure, visto che volenti o nolenti cittadini del mondo lo siamo ormai da tanto tempo. E poi… tutto il mondo è paese! Ma forse e ancor di più… ogni paese è un mondo, a sé stante, magari, ma comunque un mondo. Anche queste cose alle quali ho or ora accennato mi ripromettevo di dire, invitando con queste mie lettere, – poca cosa in verità – a rivedere, rivalutare e rivitalizzare il patrimonio complessivo di Cirò Marina e dei Cirotani, che è artistico, archeologico, naturalistico, e umano, in tutte le forme nobili in cui questa ‘umanità’ si realizza (le opere) e con il mezzo più immediato attraverso il quale si esprime (il dialetto). Questa specie di ‘premessa’ all’opera di Giovan Francesco Pugliese e di Giuseppe Ferrari mi ha forse preso la mano, rubando spazio alla scrittura e tempo alla vostra eventuale lettura. Chiedo venia di ciò. Credo che pochi abbiano amato Cirò come G.F. Pugliese (1789-1855). Da buon cirotano (non fa differenza che io sia marinoto: siamo comunque ‘pajsàn’…) nel mio piccolo vorrei rendergliene merito nel modo più semplice, – e forse l’unico che mi è dato -, cioè apprendendo dalla sua opera e parlandone. Sapevo sin da ragazzino dell’esistenza dei due volumi della ‘Descrizione ed istorica narrazione dell’origine, e vicende politico-economiche di Cirò in provincia di Calabria Ultra II’ (questo è il titolo del I volume, quello del II si dilunga in un sottotitolo: ve lo risparmio), pubblicati a Napoli nel 1849, libri che non ho mai nemmeno sperato di poter leggere, allora, negli anni 70, poiché li ritenevo introvabili, anche in rapporto alla mancanza di biblioteche pubbliche a Cirò Marina. Dopo tanti anni, e grazie a Google libri, l’opera di Pugliese ho potuto leggerla e rileggerla, riscriverla e in parte annotarla, rendendomi conto di quanta anima e sapienza l’autore vi abbia riposte nello scriverla. Si tratta di un’opera di grande impegno civile, scritta da quello che era, secondo il sentire dell’epoca, un ‘galantuomo’, e che oggi potremmo definire una persona illuminata, dalla ampie vedute, animata da profonda onestà e sostenuta da un sapere e da una forma mentis difficilmente rintracciabili in quel piccolo borgo che era, benché fosse ‘capoluogo di comprensorio’, la Cirò della prima metà del XIX secolo. Bisogna tenere conto, nel giudicare l’opera, delle difficoltà dovute al quotidiano isolamento culturale del suo autore: maggior merito, quindi, nel rinvenire tanta varietà di temi, alcuni di respiro addirittura europeo, che egli affronta e propone, pur vivendo in una regione che taluni viaggiatori transalpini (e non solo) ponevano più o meno ai confini o addirittura oltre i limiti del mondo ‘civilizzato’. Il mondo è oggi straordinariamente cambiato, anche rispetto a pochi decenni fa, ma bisogna tener presente che la storia e geografia della nostra regione, e non solo di essa, fino al XIX secolo era ben poca cosa, a volte era quasi opera di fantasia, e inficiata da conoscenze tanto consolidate quanto infondate (che è l’equivalente, anche in altri ambiti, dei pregiudizi).
Aggiungo solo che molte opere storiche e geografiche riportavano le lancette del tempo a Erodoto e Strabone… Poi, dopo secoli di buio, appaiono, per la Calabria, Gabriele Barrio, nel ‘500, padre Giovanni Fiore da Cropani (1622-1683), Girolamo Marafioti (1567-1626), e pochi altri; l’opera in latino del Barrio, scritta nel XVI secolo, sarà poi emendata dai troppi errori a cura di Tommaso Aceti (1687-1749), circa un paio di secoli più tardi. Un buio quasi totale, impenetrabile, di rado violato da viaggiatori forestieri come Henry Swinburne (1743-1803) o da inviati del governo napoletano come Giuseppe Maria Galanti (1743-1806), uno dei massimi esponenti dell’illuminismo napoletano, oltre che uomo di stato. Per il resto, qualche atlante, qualche corografia, come quelle di Lorenzo Giustiniani o di Attilio Zuccagni-Orlandini. Non molto altro, fatta salva l’opera e soprattutto l’impegno quasi rivoluzionario di Vincenzo Padula (Acri 1819-1893), – ma siamo già nella seconda metà dell’800-, per quel che attiene la conoscenza della nostra Calabria e le condizioni di vita dei suoi abitanti. In tanta scarsezza di fonti, l’opera di Pugliese è rimasta inspiegabilmente ignorata, e questo lo ritengo, culturalmente, un vero misfatto, dal momento che la visione storica di GFP va ben oltre i limiti localistici ed è ancora oggi, a mio modesto parere, di somma rilevanza per quanti volessero conoscere davvero, fuor di retorica, la storia della prima meta del XIX secolo, negli aspetti più disparati. Purtroppo in quei libri parla il Pugliese uomo e giurista, e in quanto tale costretto a dosare le parole a causa del controllo occhiuto da parte governo napoletano: sempre di un magistrato, di un uomo di legge, stiamo in fondo parlando. Ad ogni modo, la disamina della situazione storica e del contesto sociale è puntuale e poco incline agli ‘sconti’, e solo di rado, in mancanza di prove, vengono omessi i nomi degli autori di comportamenti ritenuti poco ‘apprezzabili’. Del resto, quanto l’autore afferma è corroborato dai documenti giustificativi posti in appendice al secondo volume. Aggiungo infine che parlare di baroni e di feudalesimo non doveva essere cosa semplicissima, per un intellettuale come il Pugliese, che faceva comunque parte di quella classe abbiente e dominante, in genere preoccupata soprattutto di non perdere potere e terreni. Se devo accusare una pecca che affiora nell’opera di GFP, indicherei il giudizio negativo che egli dà nei riguardi di quell’altro grande calabrese che fu Tommaso Campanella, ma insomma… nessuno è perfetto, senza farla troppo lunga. Io invece l’ho fatta veramente troppo lunga… vuol dire che, se la redazione de ‘ilCirotano’ e i lettori vorranno, nella prossima lettera tornerò a parlare di dialetto e di quanto i cirotani sono bravi a raccontare, ripartendo ovviamente dalla ‘Descrizione’.
Cataldo Antonio Amoruso
da Piacenza
Mi sono reso conto di aver scritto ‘Cirò capoluogo di comprensorio’: chiedo venia per la svista, volevo scrivere ‘capoluogo di Circondario’; il Circondario Civile di Cirò, in epoca borbonica, comprendeva le comuni (così si chiamavano all’epoca) di Cirò, Crucoli e Melissa.
Grazie.