Apparso su “Calabria Kroton”al n° 33 del luglio 1990, questo scritto del giornalista e storico crotonese Angelo Vaccaro sul poeta dialettale Bruno Pelaggi da Serra San Bruno, mi piace riproporlo fedelmente ai nostri lettori come contributo per maggiori approfondimenti sulla storia della letteratura meridionalistica. Fedelmente, anche se lo storico crotonese nel ricopiare i versi non è stato preciso, perché ha voluto utilizzare il dialetto casabonese, sua terra natia, piuttosto che l’originario, quello del poeta, il serrese. Non è dato sapere quando il Vaccaro abbia concepito questo scritto, ma certo è che negli anni successivi il poeta serrese molto è cresciuto nella considerazione di tanti e tanti scrittori e critici. Sono in molti ad essersi avvicinati, infatti, alla poesia di Mastru Brunu, così come affettuosamente viene chiamato ancor oggi e non solo nella sua Serra. “Uno sconosciuto per i più: un poeta nato, però, a cui la vita serbò sempre un ghigno di matrigna e che la notorietà non raggiunse, pur meritandola, perché non si ebbe alcuna ventata reclamistica o nessuna di quelle speciose amicizie protettive del nostro bel mercato letterario che bastano ad assicurare da sole ad un uomo la patente della ‘Gloria’. Bruno Pelaggi fu un autentico figlio del popolo: povero scalpellino a cui mancò, spesso il pane – Signore del verso, che non ebbe mai bisogno di apprendere regole di metrica – sognatore inquieto che fece del lavoro un dovere e dell’ispirazione una fonte inesauribile di ricchezza e di luce. Nacque a Serra San Bruno il 15 settembre 1837 e quivi morì il 6 gennaio del 1912. Visse di lavoro, umile e modesto, ed ebbe sei figli che gli resero la vita ancor più triste e difficile. È fama che poetasse lavorando e che il lavoro interrompesse ogni qualvolta una potente ispirazione lo dominasse per mostrargli i miraggi delle visioni giganti. Per le sue tristi condizioni economiche fu sempre creduto uno spirito dolorante: a volte sembrava ilare e caustico insieme, quasi avesse voluto vendicarsi con una smorfia di riso della triste pena alla quale la vita lo aveva condannato. Cantava! Ecco il segreto grande della sua anima. Cantava nel dolore, come nella gioia, e nell’armonia del verso, fatto sospiro, annegava l’esacerbazione della sua tristezza senza nome. Di questi suoi canti soleva allietare le conversazioni dell’allora Ministro Bruno Chimirri, [serrese] del quale divenne il più caro amico. Molto egli scrisse, ma poco o nulla venne dato alla luce. Gli sopravanzavano molte liriche di squisita fattura e di ispirazione sincerissima, che lo rendono ben degno della più viva memoria. Ricordiamo fra queste: Lamenti Calabresi a S.M. Umberto I. Sentite qualche quartina vi ammirerete la forma spigliata e la graziosità del dire: “De supa ‘sta montagna,/ te jiettu ‘na gridata / sentita ‘sta chiamata / e fussa prestu,/ Nun me fare mo restu/ futtutu di lu tuttu, / ca lu sai quantu è bruttu l’aspettare”.
E in un sempre crescente lirismo, che dolora e rattrista, egli enumera tutto il quotidiano sacrificio della nostra Gente, alla quale tutto si nega, alla quale molto e sempre si promise e mai si diede: “Basta, simu Italiani/ gridammo lu sessanta./ E mò a voglia mò canta la cicala./ La fama ccu la pala, / si taglia ccu la zappa/ cu’ è giuvane sa scappa/ a Nevajiorca./ Nun sperare cchiu’ nente,/ Calabria sventurata, / resti dimenticata ppi n’eternu./ E sulu si’ chiamata a li soliti spassi:/ mo paghi mposti e tasse/ e nente cchiude./ E mai si vida l’arva,/ sempre simu allu scuru./ nun ne danu lavuru/ ppe ‘nu jiornu./” Non meno indovinata resta la poesia A lu Patre Eternu: “Nin vidi, Patreternu, lu mundu mo dirupi,/ ch’è abitatu de lupi e piscicani?/ Prestu, mina li mani, vidi come mò fai:/ cacciane de sti guai/ almenu aguannu./ Lu vidi can de fanu/ muriri a pocu a pocu;/ Tu te mentisti llocu/ e stai mò guardi?”. E poichè i dolori prospettati al Re, rimasero senza conforto, il Poeta spererebbe che il Padre Eterno, almeno, ne sentisse pietà. Ricca, poi, di brioso dire resta la lirica Tiberiu, contro un cotal medico di Melito Porto Salvo, presentatosi Deputato contro il suo amico Chimirri; né meno bella per fattura e sentimento resta la Pigghiata di Bregnatura, così come inondata di sincerissima ispirazione è la sua famosa Li zzocculi di Tiresa. I più lo ritennero un fortunato buontempone, a cui sorrise sempre il buon volto della tranquillità e della spensieratezza. Pochi sanno che nella sua apparente briosità torturava, non vista, l’amarezza di una dolorosa verità, che nascose agli uomini le lagrime più crude ed i singhiozzi più strazianti. Spesso, fu l’affanno per un pane che mancava, pianse, talvolta, per un crudo destino che sovrastava la sua come la vita della sua gente, umile e senza conforto. Quasi sempre gridava e protestava per la nerissima ingiustizia alla quale i secoli e gli uomini condannarono la sua Calabria lasciandola nel più nero abbandono e succhiando dalla sua vita, già grama, quanto di meglio e di più avesse potuto per arricchire e migliorare la prospera vita delle altre regioni d’Italia. Ed in questo fu l’interprete più vero e più degno della nostra sventura, che sanguina e incrudelisce sempre più nel tempo. Fu un popolano, dicevo, ma uno di quelli che, per forza del suo spirito, seppe elevarsi nelle regioni della verità e della bontà. Un bistrattato, un eroe della soffitta, che il dolore non riuscì, però, ad abbattere e che del dolore seppe fare motivo di ragione di elevazione e di purificazione. Un popolano che disprezza, nel dire e nel fare, la volgarità teatrale, spesso tanto comune agli stessi difensori del tormento degli umili. Col cuore sempre giovane e ricco di poesia. Calabrese, sempre e dovunque, per innato bisogno”. (Angelo Vaccaro)