Carmine Abate ha vinto il Campiello, il cinquantesimo (qualcosa che succede per la prima, decima, cinquantesima o centesima volta acquista sempre un’aura per così dire ‘particolare’, una specie di valore aggiunto, per abusare di questo modo di dire che nemmeno prediligo): me lo ha detto mia moglie, all’indomani della assegnazione, pensando di farmi contento, in questo periodo non certo dei migliori per me. Le ho risposto un po’ freddamente che sì, che tornando a casa in auto avevo sentito alla radio che il romanzo del calabrese Carmine Abate era tra i candidati più accreditati, con la sua ‘Collina del vento’. Calabrese, come nel Medio Evo, quando si diceva il calabrese Barlaam o il calabrese Gioacchino da Fiore…uguale! Se uno è calabrese, ancora e purtroppo, bisogna premetterlo…è quasi come un “udite, udite!”, ma lasciamo andare. Vivo in una casa quasi fatta di libri: le infiltrazioni d’acqua dal tetto erano una minaccia costante, che speriamo d’aver finalmente risolto con l’ultimo, oneroso intervento, dopo il quale i libri si sono finalmente rasserenati: glielo dovevamo, non solo io, ma anche gli altri lettori che vivono in questa casa, quelli più giovani che non usano le lenti per leggere, quelli che si sono rassegnati a usarle, cioè mia moglie, ed io che vivo questo abbassamento della vista quasi come un tradimento, poiché negli occhi e nel sangue ho sempre creduto fermamente, anche troppo. Dei libri potrei dire che sono di casa, qui dentro, che le loro parole diventano quasi gesti familiari, anche con le righe che non ho letto, e che mai leggerò e che sono qui, e fanno compagnia, partecipano comunque della nostra esistenza…è un po’ difficile da dire, ancor più da spiegare, lo so…ma c’è stato un tempo in cui provavo a disporre i libri in modo da vederne solo la parte opposta al loro dorso…eppure, eppure li riconoscevo tutti, ad uno ad uno, e chissà se riuscirei a individuarli anche al solo tatto…Francesco, mio figlio più grande e lettore più accanito, mi dice che ho un bel lamentarmi che non ricordo nulla, e che sto invecchiando, e che gli fa rabbia la precisione con cui tiro fuori dal cilindro, magari un po’ impolverato, il libro che lui cercava da tanto tempo. Io la butto sulla fortuna, sulla inutilità di queste contingenze, ma lui non mi sembra molto convinto, almeno nella misura in cui io non mi sento convincente… Tra questi libri che ci contornano, ci sono anche quelli di Carmine Abate, che chiamo a volte ‘u ggheggh’, a volte ‘u scarfizzòt’, come se fosse uno che vediamo passare sotto casa, con quel colorito olivastro (almeno così lo immagino, e così deve essere: non ci sono santi, compà!), che tanto dice di koinè non solo linguistica, ma per così dire, di sangui e umori. E poi, ‘sti ggheggh, mica male…Gerolamo (Jeronimo) De Rada, Giuseppe Gangale…avete avuto modo di leggere la poesia di quest’ultimo (vedi alla fine della lettera), posta all’ingresso del cimitero di Cirò Marina, che per inciso è il mio paese? (E non dico ‘paese d’origine’ o altre amenità del genere: esso è oppure non è, punto.) Che poi ‘ggheggh’ non è dispregiativo, essendo semplicemente, i gheghi, gli albanesi che vivono a nord del fiume Drin, tutto qui, se non ricordo male, e si vede che rappresentavano la maggioranza di quanti cercando di sfuggire alle persecuzioni ottomane si rifugiarono nel Sud d’Italia… Anche Nicola, il mio amico di una vita, sapeva del Campiello e mi ha detto, come sempre, se sapevo che Carmine Abate è molto amico di suo fratello, quello più piccolo. E siccome la notizia ci riguarda così da vicino, ne ho parlato a mio compare Peppino dei Bucchi, che compra tutti i libri di Camilleri, e, dopo che la sua moglière romagnola li ha letti, li passa a me, e alla fine ogni tanto fissijamo in similvigatese. E tutte le volte gli ripeto che secondo la mia teoria i greci che hanno popolato Akragas e Krimisa dovevano essere pajsani, ché troppo i nostri dialetti si somigliano… almeno questa è la mia teoria. Peppino lo chiama solo per nome, a Càrmn, l’ho notato già da un po’, e non so perché, ma i libri di Càrmn Abàt non ce li passiamo, li acquistiamo separatamente, e mi sembra quasi di obbedire ad un tacito accordo, nel rispettare questa specie di consegna…non so, a me sembra che entrambi, io e Peppino, che poi è uno dei pochi, e comunque tra i miei colleghi l’unico, che legge ciò che scrivo, entrambi, dicevo, sembra che abbiamo trovato il nostro profeta in patria, nell’imbatterci in Abate Carmine da Carfizzi e nel riconoscere che se il profeta vale, prima o poi la patria lo accoglie e gli rende giustizia, merito.
La collina del vento l’ho divorata senza pensare, ma solo sentendo, immergendomi, e certo, appartenere ai luoghi descritti è un viatico non da poco, anche se un libro che vale può colpire benchè ambientato nei luoghi e nei tempi più sconosciuti e distanti. Ho accolto questo libro senza riuscire a staccarmene da una sola pagina o da un solo rigo, fino all’epilogo, come sempre più di rado mi capita. Potrebbe essere, questo di Carmine (cittu cittu, anch’io gli do del tu), il libro della maturità, ma spero che sia uno dei libri della sua maturità, probabilmente il migliore finora. Il ‘raggiungimento della maturità’ si legge -è proprio il caso di dirlo- nella pienezza e nello stile piano del rigo, in una scorrevolezza piacevole, scevra da sbalzi e inutili scossoni: egli sa dove vuole condurre il lettore, avvincendolo nella trama, ma senza soffocarlo nelle spire del suo svolgersi ed evitandogli quella fastidiosa sensazione di smarrimento, di confusione o sconfinamento che troppo spesso ricorre in molti romanzi o racconti. La saga degli Arcuri si dipana in maniera lineare, abbracciando all’incirca l’arco di un secolo, e in esso perfettamente calandosi. Noi ‘naturali’ di quei luoghi ne abbiamo visti e sentiti tanti, ma troppe volte non ‘ridetti’, di accadimenti come quelli semplicemente narrati da Carmine Abate. E narrati ricorrendo nella giusta misura al nostro dialetto, liberandolo da quel poco di allineamento sopra le righe a Camilleri che mi era sembrato di notare in qualche altro scritto, ma forse era solo affinità linguistica (vedi sopra), calandosi nella storia delle nostre contrade, e affidando loro uno spessore che non è solo narrativo, ma che è anche il valore della scoperta, dell’acquisizione, della presenza nella storia, e parlo di persone e luoghi, di Paolo Orsi, di Krimisa, di Umberto Zanotti-Bianco, ma anche di una Paternum, per inciso successiva a Krimisa e precedente a Ypsicron, che manca e che sembra quasi lì lì per essere nominata, e invece è infine condannata, come lo fu dalla storia, a una non-epifania. Per la prima volta, credo, non traspaiono dal racconto le origini e le implicazioni arbereshe dell’autore, autore che è comunque epigono di una genìa e suo rapsodo, e che qui diventa anche una sorta di ecista, un novello Filottete, fondatore di una Spillace che è una nuova Carfizzi, Karfici, e scopritore di una collina, il Rossarco, -nome bellissimo, tra l’altro,- che mi piace identificare con Madonna di Mare, la mia Madonna di Mare che ogni anno, nella seconda metà di luglio, continuo a fotografare, sperando forse in qualcosa che non so realizzare, o che non oso realizzare. In questo libro Carmine Abate dice cose che tutti noi, motori accesi e rispenti ‘targati Magna Grecia’, -memorabile espressione questa di Franco Costabile- avremmo magari voluto dire, e non ci siamo riusciti, o vi abbiamo rinunciato, per mancanza di fiducia o di un credo, o per sfinimento…vallo a sapere perché. E dice cose che stiamo dimenticando, come le storie e la storia che ancora sospingiamo, polvere che non si vuol vedere -o dare a vedere-, sotto il tappeto dell’oblìo. Lui, l’autore, ci ha creduto, in questo suo dono che è la scrittura, e ne ha fatto, credo di poter dire, una missione. E di questo, piaccia o no, coscienti o meno di ciò, noi dimenticati delle Calabrie, ovunque viviamo, non possiamo che essergli riconoscenti. Ed io l’ho ringraziato, dopo ore di lettura, con un silenzioso “Ah, gghegghiu fricàtu”!!!, che lui senz’altro capirebbe.
Cataldo Antonio Amoruso
PREGHIERA DELLA SERA di Giuseppe Gangale (Cirò Marina, 1898 – Muralto, 1978)
Signore, Tu vedi dove io sono giunto:
la strada era lunga
e le tue porte strette, così com’è scritto.
Come tu hai voluto, ho lasciato la casa,
ho preso il fagotto e mi son fatto mendicante.
Come tu hai voluto, ho varcato
montagne e fiumi, ho acceso
guerre, maledetto e benedetto,
assetato di verità, ho parlato
lingue straniere assieme a gente straniera.
Io forestiero tra la mia gente,
io uomo solo tra tanta gente.
Io vetro rotto, eppure specchio
di Te, che trasformi in vessillo un cencio.
Ora ch’è issato questo vessillo
sopra le cime dei monti sui quali
ripararono i miei antenati
e fischia il vento della mia sera,
a Te, Signore, affido il vessillo.
Ti prego io che tante bandiere ho abbassato,
Ti prego io che per anni senza numero
più non ho potuto pregare.
Vedi: la lingua che non si scioglieva,
come quella di Zaccaria senza fiducia,
si scioglie (per chiamarti: o altissimo
o misterioso, o ineffabile,
con le parole morte degli avi,
rugiada benedetta, aspersa
sulle mie aride carte).