- Documentarsi sul dialetto cirotano, parte prima
- Documentarsi sul dialetto cirotano, parte seconda
- Documentarsi sul dialetto cirotano, parte terza
- Documentarsi sul dialetto cirotano, parte quarta
- Documentarsi sul dialetto cirotano, parte quinta
- Documentarsi sul dialetto cirotano, parte sesta
Esaminando l’opera del Pugliese eravamo rimasti alla ‘cuchigghjàta’ e alla beccaccia arciere dal cui becco forse deriva la parola ‘arcigghjùnu’; riparto dal mondo animale e dalla segnalazione di GFP che parla della presenza a Cirò di ‘rampicanti, o natili, di color rossigno per lo più, e che alcuni campagnuoli anche mangiano come i ghiri. Essi si rampicano sugli alberi nelle cui cavità nidificano.’ Questo piccolo roditore letargico (Eliomys nitela) è attestato in vari luoghi di Calabria come nitila o notila, ed è effettivamente simile al ghiro; in italiano è noto anche ‘topo quercino Nitela’ (nitela è anche il nome latino). Staccando un attimo dalla ‘Descrizione…’, ricordo i ‘jurìddi’ (orbettini), dei quali abbiamo già parlato sotto forma di commento, giusto per sottolineare con quanta facilità certe convinzioni possano formarsi (la paura dei juriddi) e quanta fatica si debba durare per sfatarle (la presunta velenosità). Direi che certi spauracchi (u lupu, u mmommò, i spirdi, u juriddu) vengono tanto agitati per controllare le nuove generazioni fino al punto che lo stesso ‘agitatore’ (educatore ‘arranciatizzu’) perde di vista la vera funzione degli strumenti adoperati. Fine della divagazione: torniamo al Pugliese, alla fauna e, immancabilmente, alla caccia, della quale afferma che ‘in generale non è qui che una passione: il vizio della caccia, così dicesi.’ Ricordando che molti termini sono italianizzati dall’autore, ma che facilmente si possono ‘riconvertire’ in cirotano, troviamo ‘i quadri’ cioè ‘i posti dove si paran le reti in quadrato per le quaglie’, e che per inciso erano ubicati in 12 punti precisi (più altri sui ‘colli mediterranei’), stabiliti per consuetudine e individuati in modo da non poter ‘confliggere’ tra loro; di questi ‘posti’ tre erano dedicati alla caccia alle tortore, chiamandosì perciò ‘tortorari’. E come avveniva l’accaparramento, per così dire, delle postazioni, visto che queste non erano di esclusiva pertinenza o proprietà? …Così: ‘La notte dunque del primo di marzo chi va primo al posto, e vi accende il fuoco ha il diritto principale a quel sito, e niuno ce lo contrasta. Se altri va pure durante la notte, e fino allo spuntar del giorno si ritiene compagno. La caccia poi comincia da aprile, e finisce ai primi giorni di giugno. La notte succede (avviene) il passaggio delle quaglie: si suona il richiamo imitante la femmina: tutti i maschi si precipitano al sito ove suonasi, e restano nelle reti. Un quadro con quattro reti a quadrato, ed altrettante a spuntoni o sia fuori gli angoli estremi, in una notte prende 300 e fino ad 800 quaglie. Facendo l’alba si passa a tender le reti in fila alle tortore, che si fanno bassare col tiro di pietre tinte in bianco con gesso: si grida; si spaventano le tortore, e vanno a restare avvinte nelle reti.
Quella data, primo di marzo, mi ricorda una espressione che qualcuno di voi avrà sentito: bonuvenùtu/a com a prima ‘e maju: sia tu benvenuto/a come la prima di maggio! Il Pugliese, manco a dirlo, la spiega così: ‘La serenata fruttava una provistella al mastrogiurato per la propria dispensa. Comunque questa festa sia antichissima in più popoli, e gli albanesi nostri vicini continuassero a farla in onore delle fidanzate, e per le quali s’impianta e si canta il maggio; pure per Cirò io trovo la ragione nella circostanza che trovandosi allora occupato l’uso di pascolo di tutte le vaste tenute demaniali dell’università (il comune) dal Barone (da intendersi ‘il feudatario), la consuetudine e le varie convenzioni portavano che al primo maggio seguisse lo sbarro di tali pascoli a comune uso di tutti i cittadini. Ecco che ciò portava lo sbarro o scoppio del mortaretto, e la festa; ed era tanto grato per tal libertà di pascoli l’ingresso del mese di maggio, che per esprimersi il gradimento dell’arrivo di un amico, o di un forastiere non poteva né sapeva dirsi meglio del «ben venuto come la prima di maggio». Su questo tema mi propongo di tornare parlando di feste e di feudalità, anche perché la parola sbarro indicava un atto di barbarie che si perpetrava ai danni delle donne: ora torniamo a parlare, non di caccia ma … di pesca. Il Pugliese lamenta la scarsa presenza di pescatori, fatto salvo qualche ‘sciabacaro’, e aggiunge che ‘in alcuni anni la pesca delle sarde, delle sardelle, delle bobbe o vope (si tratta della boga, famiglia sparidae, genere boops) è così abbondante che si vendono a vilissimo prezzo’. E così ricordiamo cosa vuol dire che un prodotto ‘va vilu’, cioè ‘costa poco’. Poi ci dice che in està (e sì, d’estate, o come in cirotano ‘a staggiòna’, o ‘l’estaggiona’) c’era penuria di pesce e quindi i rifornimenti erano assicurati dalle barche dei tarantini con la pesca e la vendita di lutrini (anche questi, come le vope sono degli sparidi, ma di un altro genere: pagellus), e dai pescatori baresi grazie alla cattura dei cefali (o muggini), con la tecnica dell’incannata. Inoltre: ‘nei laghetti che si formano alle foci dei due torrenti sopra enunciati, e lungo il loro corso, si pescano le anguille, ed i cefalotti o con piccola rete detta manica, o contaminando le acque col tasso (dell’espressione ‘stare ntassatu’ si era parlato nella terza parte), titimalo e piperita. Con ‘titimalo’ si indica l’Euphorbia dendroides o la E. characias, utilizzate come paralizzanti. Altro nome, però, del titimalo è ‘totomaglio’, e questo termine sopravvive nel dialetto cirotano ad indicare cosa inutile, di poco conto, o comunque una operazione dall’esito incerto (ad es., accusando di possedere una cifra del tutto insufficiente di denaro, ci si potrebbe sentir dire ‘va’ accattatìlli ‘e tatumàgghji’).
Tornando all’està, veniamo informati che verso metà luglio, o dopo la metà d’agosto si scatenavano non di rado delle ‘procelle’, cioè tempeste che il volgo chiama ‘tropee’. E tornando agli animali, il vajuolo delle pecore è chiamato ‘postella’, mentre un altro male contratto dagli ovini era la visciula, ‘che si contrae pascendo la cosiddetta erba viscida o visciula, che nasce ne’ terreni bassi ed acquintrinosi’. Chiudo questo argomento delle malattie degli animali annotando che ‘Il male chiamato brutto feruto, invade spesso nella està le vaccine, e produce pustole maligne e mortali agli uomini che ne toccano le carni, e ne inoculano in qualche ferituccia il sangue putrido’. Chissà che quella jestigna ‘chi ti vo’ bènir nu mal a feruddu’ non derivi proprio dal citato ‘male brutto feruto’…
Finisco su vrodicèddu aggiungendoci una papòtula, cioè una… come si chiama? Ah, una musdea (Phycis phycis), o sarà preferibile una bella ‘cucuzza ‘e acqua’, cioè una ‘lagenaria longissima’? Ebbene quel ‘lagenaria’ viene dal latino ‘lagena’, che significa recipiente… e a questo fine era spesso destinata la parte esterna della nostra cucuzza, dopo ca s’era cupata e allignareddata: a diventare un contenitore o recipiente, utilizzato anche da coloro che si recavano in campagna… per la serie ‘non si butta via nulla!’
Cataldo Antonio Amoruso
da Piacenza