- Documentarsi sul dialetto cirotano, parte prima
- Documentarsi sul dialetto cirotano, parte seconda
- Documentarsi sul dialetto cirotano, parte terza
- Documentarsi sul dialetto cirotano, parte quarta
- Documentarsi sul dialetto cirotano, parte quinta
Prima di riprendere queste mie riflessioni sulla ‘parlata’ cirotana, voglio rinnovare i miei ringraziamenti alla redazione de ‘ilCirotano’ e ai lettori che con le loro ‘visite’ mi hanno significato benevolenza e curiosità, oltre alle critiche che immagino numerose ancorché ‘trattenute’. Mi fa piacere che la prima di queste lettere abbia quasi raggiunto il numero di mille visite, e ritengo ciò un fatto importante, non per mia soddisfazione personale, ma nei riguardi dell’argomento che ho cercato in qualche modo di proporre all’attenzione dei lettori. Quindi ‘grazie’ a tutti voi.
Ora, se vi va, dopo i tifuni, le natìcchjule, e i carni ‘mmuzzulàti relativi all’ultima lettera, vediamo qualche altra parola dialettale attestata nell’opera di G.F. Pugliese, anche se mi riesce difficile isolare l’elemento lessicale dalla coralità del contesto da lui descritto. Ad ogni modo, proviamo ad abbandonare il mondo dell’agricoltura, per indagare quello della zootecnia e del mondo animale in genere: premesso che fino a qualche decennio fa l’allevamento dei maiali ‘neri’ era molto diffuso, e non solo in Calabria, troviamo che ‘la industria de’ neri era più diffusa, perché quelle che diconsi partitelle di piccol numero di troie erano bastantemente numerose’, e che ‘è solo possibile o al proprietario di vaste estensioni proprie, o al fittuario speculatore di vaste estensioni altrui di allevarne buon numero, che si dicono morre e marcanzie; sicchè, essendo il guadagno a rischio, si spiegava così il detto ‘calcio di porco, per significare che questa industria o poteva arricchire, o impezzentire chi l’esercitava’, dove per ‘industria’ deve intendersi ‘attività’ e per ‘industriale’ chi la svolge. Nel prosieguo, GFP ci dice che i ‘porcari’ propriamente detti erano gli allevatori di ‘neri’, e ‘mannarini’ erano i porci domestici, mentre ‘voari’, ‘volani’, ‘gualani’, erano detti i bovari. Non male, abbiamo già ‘ripescato’ termini come ‘partitedda’, ‘murra’, ‘mannarinu’, oltre a un detto che ritengo scomparso e a qualche precisazione.
Oltre alla ‘Descrizione…’ ora vorrei lasciar parlare, a proposito di fauna, un paio di mie personali ‘fonti orali’. Un’antica cantilena che ho potuto ascoltare, negli anni sessanta, dalla viva voce di una anziana parente, recitava ‘cìngul cìngul jìva ppè bbìa, l’occhjirùssu lu vidìa, e s’unn era ppè šcrenchtòrt, cìngul cìngul era mortu’… era una specie di innocente indovinello, dove ‘cìngul cìngul’ credevo fosse un personaggio un po’ distratto che se ne andava ciondolante per la sua strada, mentre il lupo (l’occhjirùssu) lo osservava (pregustandoselo) e se non fosse stato per l’intervento provvidenziale del cane (šcrenchtòrt), ‘cìngul cìngul’ sarebbe morto. All’epoca ero un bambino e non mi spiegavo quel ‘cingul cingul’, lo interpretavo come un nome incomprensibile, mentre oggi credo di poter dire che non di nome si trattava ma di un avverbio di modo riferito al soggetto sottinteso della frase: quel ‘cingul cingul’ è il corrispondente del siculo ‘trìnguli trìnguli’ (‘barcollante’) o ‘tringuli mìnguli’, e qualcuno vuole leggere in quel ‘cinguli cinguli’, a soluzione dell’indovinello, la pecora, mentre a me, che l’ho ascoltato dal vivo, così non sembra, continuo a vederci, come soggetto un ‘iddu’ sottinteso. Su questo ‘indovinello’ mi propongo di ritornare, poiché lo ritengo importante per vari motivi linguistici; intanto lo uso per introdurre l’importanza degli animali e l’incombere pauroso del lupo nella vita quotidiana dei tempi della ‘Descrizione’. Infatti GFP ci dice che ‘tale è il desiderio di scansare questo animale nocivo che si usano ancora e le preci religiose ed i sortilegii, e le superstizioni. Alcuni religiosi han composto delle apposite orazioni, ed alcuni riti per maledirli, ed implorarne da Dio la distruzione; ma altri pretendono che ciò sia peccato, perché si tiene per sacra questa nocevole fiera, talché credesi di non poter soggiacere a’ colpi de’ cacciatori se S. Silvestro non l’abbia maledetta: sul corpo morto del lupo si fan passare e ripassare tre volte i ragazzi per farli esenti dal dolore di ventre: si crede che donna cibata di carni di animali morti (cioè uccisi) da’ lupi generasse figli con fame lupina, e per farcela passare si fìnge di spingerli e ritrarre per tre volte dal forno mentre vi si cuoce il pane, dicendosi per tre volte: abbùttati Lupu, val dire saziati Lupo. Si fan preghiere a S. Silvestro cui si attribuisce la protezione di questo animale, per tenerlo lontano, come a S. Vito per preservare i cani dalla rabbia, ed a S. Paolo per iscansare uomini ed animali utili dal morso delle vipere.’ A quanto sopra aggiungo che, almeno successivamente, il compito di proteggere i lupi era assegnato a Santa Domenica, la quale, nei racconti che ho potuto ascoltare ntunnu ntunn a vrascèra, circolava per le nostre contrade, seguita da uno stuolo di lupacchiotti sempre sensibile all’arrùcculu e a salvare, quando invocata, i malcapitati esecutori del richiamo ai lupi, appunto l’aarrùcculu, cioè l’ululato. Credo che l’odierno ‘far nu rùcculu’ derivi proprio da quanto ho appena detto. Tra l’altro, anche i cani erano molto temuti, al punto che molti credevano, – questo lo dice GFP – , ‘di possedere il segreto di legare i cani, cioè di renderli muti e stupiditi, recitando parole mistiche.’
Sempre parlando di fauna, troviamo che le faine si dicono anche ‘fujne’ e che oltre a lupi, volpi, malogne (i tassi), istrici e spinosi o rizzi, ‘vi è un altro animale più nocivo che comunemente chiamiamo pituso, le cui carni, e pelle son puzzolenti: introducendosi un di questi animali in un pollaio fa stragi, ne succhia solamente il sangue, e non ne mangia le carni.’ Il famigerato ‘pitùsu’ altri non è che la puzzola (mustela putorius), che usa praticare un foro nella testa delle galline per succhiarne il cervello. Cambiando specie, GFP annota la presenza della talpa o sorcio-orbo, che in cirotano si chiama ‘suriviciòlu’, cioè esattamente ‘suriciu-òrvu’, ulteriormente corrotto, o modificato, in … suriviciòlu! Poi troviamo, tra i rettili, la vipera ‘cervinàra’, la vipera curcia, cioè senza coda, e l’aspide, che in cirotano è diventato àšpir, da non confondersi con ‘u medicinàlu dì vigni’, anticrittogamico di una nota marca, il cui nome risuona quasi allo stesso modo (‘Aspor’… àšpir, àšpr, insomma: u virdiràmu o a virdiràma). Viene poi citato un animale, descritto come simile alla volpe, ‘l’unico quadrupede anfibio che conosciamo’ e che si chiama idria: parla della lontra. Passando ai volatili, troviamo, interessanti per il dialetto, le Ciàule (ciàvula, ciàgula, corvo, cornacchia, corvide in generale), i fringuelli o sbinzi (i spìnziri), i malvizzi (i tordi, marvizzi: ‘ogni botta nu marvizzu!’), i pettirossi (ruvazzi), le fravette (fucetole d’inverno, sempre di beccafichi si tratta), i colombi, distinti in torchiati e marinelli, i mellardi o capiverdi (un antico dizionario recita: ‘specie di anitra selvatica, detta anche bibbio o fischione dai toscani e mellarda o millarda dai napoletani’), le cucugliate (cuchigghjàti), cioè le allodole, e poi cucciarde (si tratta ancora di allodole), gaioli, gauli, iovaluri (si tratta di nomi vari riferiti al rigogolo), codivattole (curivàttula, cioè cutrettola). Un altro volatile segnalato da GFP è la beccaccia, detta anche ‘arcere’ (GFP lo scrive tra parentesi), parola alla quale alcuni etimologi fanno risalire la parola ‘arcigghjùnu’, ipotesi che sarebbe suffragata dallo sviluppo del becco di questo volatile, che è noto anche, in Toscana, come ‘acceggia’, e questo forse rende più plausibile una tale interpretazione etimologica (arcere in unione con acceggia/ accegghja potrebbe essersi sviluppato in *arcegghjia, e quindi *arcigghjùna; l’asterisco si usa per indicare parole non attestate, frutto di supposizioni).
Qui mi fermo, sperando di non avervi annoiato troppo, ché da dire c’è ancora tanto, e quindi, se lo vorrete… alla prossima!
Cataldo Antonio Amoruso
da Piacenza
Sempre interessante e sempre di più. Io sono stato sempre messo in guardia conro i juriddi…” un ci jiri ddà ca ci suni i juriddi” – Puoi dirmi a cosa corrispondono?. Grazie ancora e stai tranquillo che non annoi.
Quintì… mi domandi una cosa che non posso non sapere: la mia vita a Cirò Marina è stata quasi caratterizzata dalla presenza dei ‘juriddi’. Dove abitavo io, cioè in un casello delle ferrovie oggi abbandonato, a cento metri dalla stazione, temevamo moltissimo questi tanto vituperati juriddi, ritenendoli delle vipere velenose. In realtà i juriddi sono sauri (come dire che sono delle lucertole, nonostante il loro aspetto): si tratta dell’orbettino, che altrove, in Calabria, si chiama rijìllu. Questo è quello che ne so io. Grazie.
Molto interessante, Eduardo, ancor più se si pensa che quello che racconti si perpetua dall’altra parte del mondo, annullando per qualche attimo gli anni e la distanza: grazie! Zzù Umbertu non si offenderà se preferisco la versione di Zzà Vittora. Ti ho scritto una mail, ciao.
Salve Cataldo! mio padre ogni volta che mangiavamo maiale ricordava: ´ricia ´ricierddra, si grassa e si beddra, quando ti mori, qual anca mi da? invece zia Vottoria diceva: ´ricia ´riceddra, si beddra e si grassa, quando ti mori, qual anca mi llassa?
un cordiale saluto da Salta!